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    La gratuità: aspetti teologici



    Guido Gatti

    (NPG 1981-01-14)


    La gratuità non è un atteggiamento di moda in una società che da più di due secoli continua a immaginarsi nata e legittimata da un «contratto sociale» e che si fonda su una contabilizzazione totale delle prestazioni, considerando il valore di ogni persona in base al rendimento sociale, misurato in termini rigorosi di «valore di scambio»; una società che ha sempre di più marginalizzato il comunitario e che tende a trasformare ogni forma di rapporto umano in un contratto oneroso retto dalla regola - ahimè così difficile da applicare giustamente - della perfetta reciprocità e della uguaglianza delle prestazioni.
    Il cristiano, che vede nella gratuità un elemento specifico e distintivo della sua identità, è costretto anche in questo campo ad essere se stesso solo a patto di andare coraggiosamente controcorrente.
    Ma il vangelo su questo punto è categorico: il credente è chiamato a dare senza aspettare nulla in cambio.
    Questo dare gratuito è del resto il solo modo concreto con cui il credente restituisce qualcosa di ciò che gli è stato dato gratuitamente da Dio.
    Dare gratuitamente è il modo di dare di Dio, anzi è il suo unico modo di agire nei confronti degli uomini. In Dio non sono pensabili calcoli interessati: egli è la pienezza dell'essere; una pienezza cui si può solo attingere.
    Il suo amore è preveniente e creativo: amando crea ciò che rende degna di amore la persona amata.

    La fede come apertura al «gratuito di Dio

    È quindi un amore cui ci si può aprire solo ricevendo, offrendosi in una disponibilità totale: è una scuola di gratuità; una scuola alla quale si porta soltanto la consapevolezza della propria miseria e nullità, il senso acuto del proprio peccato, la coscienza del proprio bisogno di misericordia. Questa disponibilità totale è appunto lo fede, contrapposto speculare della pretesa di essere, di avere, di valere, inclusa nella fiducia farisaica nelle «opere della legge». Secondo S. Paolo, per aprirsi a Cristo bisogna passare attraverso il superamento della legge, intesa da lui come simbolo della propria allucinazione di autosufficienza e di capacità di autosalvazione. È un aspetto del messaggio paolino che è stato a volte trascurato e che oggi si cerca di ricuperare.
    Ma forse oggi il simbolo «legge» non è più così attuale come ai tempi di S. Paolo; prendersela con la legge potrebbe equivalere a combattere un idolo decaduto e spodestato, un simbolo che ha perso ogni riferimento con la realtà significata.
    I simboli della pretesa di autosufficienza dell'uomo, che esclude la disponibilità totale al dono della fede che salva, sono oggi altri da quello della legge: oggi l'uomo affida la sua salvezza all'efficienza della tecnica, alla sicura oggettività delle scienze, alla promessa onnirisolutiva delle ideologie.
    Ancora una volta però il loro fallimento è per l'uomo una dura pedagogia a Cristo: rivelandogli il suo vuoto e la sua impotenza lo rimandano a una salvezza che viene dall'apparente assurdità di una croce e che gli è data in dono; una salvezza su cui non può vantare crediti perché è grazia. cioè gratuità.
    Proprio in questo differisce la fede da ogni religione e da ogni teosofia: non per la diversa immagine di Dio ma per il diverso modo di rapportarsi a lui; senza pretendere di poter mettere le mani su di lui, ma sentendosi trovati da lui prima ancora d averlo potuto cercare.

    Umiltà e gratitudine

    L'umiltà vissuta in questa prospettiva non è più virtù soltanto negativa, e neppure un hobby di lusso per credenti in cerca di perfezione: è il punto di partenza dell'itinerario che porta a Dio o meglio che permette a Dio di giungere all'uomo, chinandosi sulla sua bassezza e riempiendo di beni la sua povertà (Magnificat).
    L'umiltà è quindi il riconoscimento della verità; la verità della nostra miseria ma prima ancora della gratuità dell'amore misericordioso che ha cuore per essa.
    Essa ha quindi la sua dimensione positiva nella ri-conoscenza o gratitudine.
    Grato è colui che è stato gratificato, cioè a cui è stata fatta grazia da un amore che non cerca compensi, ma cui ci si può aprire solo nel ri-conoscimento della sua gratuità e del nostro bisogno.
    È l'atteggiamento eucaristico. Il culto cristiano non ha nulla di una specie di «imposta sul macinato» che si paga a Dio per riconoscere la sua sovranità e propiziarsi la sua benevolenza: è l'apertura riconoscente (in «rendimento di grazie») a un amore, costretto dalla sua stessa sovrabbondanza a dare soltanto.

    La gratuità nel mondo dell'uomo: il progetto di Dio

    Sentirsi dono di Dio in tutta l'estensione del proprio essere impegna a vivere facendo a propria volta dono di sé, strumento dell'amore gratuito di Dio verso i fratelli.
    Il modo con cui Dio ha pensato e progettato la convivenza umana, l'immagine ideale di popolo che fa parte del suo progetto di salvezza è fondato sulla gratuità. Sulla gratuità è fondata «l'utopia del Deuteronomio», alla cui realizzazione si è impegnato il popolo di Dio in forza dell'alleanza:
    «Se vi sarà qualche tuo fratello bisognoso in mezzo a te, in una delle città del paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Dagli generosamente e quando gli darai il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano» (Dt 15,17-20).
    La generosità verso il povero ha una dimensione religiosa; è comunione con Dio protettore dei poveri, padre degli orfani e difensore delle vedove (Ps 10,35-39; Pr 19,17).
    Tutelare la causa del povero è «conoscere Jahweh» nel senso pregnante che ha quest'espressione nella bibbia (Ger 22,13-16). Nel progetto di Dio la lotta dell'uomo contro la scarsità, per quanto serrata e penosa, sarà benedetta dalla generosità di Dio nella misura in cui resterà un fatto di aggregazione comunitaria, nella misura in cui sarà momento e strumento del costituirsi di Israele come popolo di Dio, cioè come comunità di fratelli; l'economia deve ispirarsi a criteri comunitari, deve essere anche un fatto di gratuità.
    Dopo la morte di Gesù e il battesimo nello Spirito, la chiesa nascente riprende approfondendolo il modello comunitario di vita dell'utopia del Deuteronomio:
    «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 2,42-48).
    Così nella vicendevole donazione dimostravano al mondo una fraternità capace di vincere la povertà e di realizzare una convivenza anticipatrice della piena comunione del Regno.
    Va detto però che questo modello comunitario (che del resto si dovette presto abbandonare ma di cui rimase viva la nostalgia che ispirerà più tardi la condivisione totale dei beni nelle comunità religiose) non fu mai pensato come modello risolutivo dei problemi posti all'uomo dal fatto politico ed economico. Il modello comunitario della chiesa primitiva più che uno schema ideologico o una soluzione tecnica dei problemi della scarsità e della giustizia, vuole affermare la profezia della gratuità come criterio in base al quale ogni modello politico umano, ogni tentativo di regolare la convivenza umana soltanto in base alle esigenze di una giustizia rigorosa è giudicato inadeguato e insufficiente.

    Giustizia e gratuità

    I problemi della fame del mondo e del sottosviluppo e le storture del commercio internazionale e della divisione internazionale del lavoro e del reddito che li alimentano dimostrano oggi più che mai come le esigenze di pura reciprocità, tipiche della c.d. «giustizia commutativa», fondata sull'uguaglianza delle prestazioni, risultino assolutamente insufficienti alla realizzazione di una giustizia sostanziale che permetta possibilità di vita veramente umana per tutti gli uomini di tutti i popoli della terra; esse anzi finiscono addirittura per diventare la giustificazione dell'oppressione e della spoliazione di interi continenti: «summum ius summa iniuria». È solo un caso particolarmente evidente di una più generale insufficienza della giustizia a bastare a se stessa.
    Non riesce all'uomo di difendere vittoriosamente questa linea minimale dell'amore se non a patto di aprirsi alla conquista delle posizioni più avanzate che stanno sotto il segno del disinteresse e della gratuità, cioè di quella giustizia «diversa» per cui ciò che è tuo è tuo, ma ciò che è mio può anche diventare tuo in un dono che viene incontro generosamente al tuo bisogno.
    È, come si vede, il modello (o l'utopia se si vuole, intesa però nel suo senso positivo di limite di tendenza delle possibilità aperte all'uomo dal dono di Dio) del Deuteronomio, del vangelo e della chiesa nascente: un modello di giustizia che rinuncia liberamente alla reciprocità.
    Considerare l'uomo, come fa la giustizia stretta solo nella sua alterità è certamente interdirsi di farne un mezzo, ma resta una considerazione astratta se si ignora che egli non è mai veramente estraneo per nessun altro uomo, ma è legato ad esso da diverse forme di «prossimità» reale che arrivano fino a quella per cui l'altro è fratello in Cristo, presenza viva di Cristo nella propria vita.
    La gratuità non va intesa solo come principio di rapporti interpersonali privati, ha anche un significato pubblico e una funzione sociale, proprio in rapporto all'insufficienza della giustizia stretta come principio per la costruzione di una convivenza veramente umana.
    Nessuno degli «impasse» di fronte ai quali si trova tale convivenza a tutti i suoi livelli (nazionale, di classe, mondiale) può essere superato senza il ricorso alla gratuità. L'universo delle prestazioni rigorosamente contabilizzate (quale è quello costruito attorno a noi dalla fredda razionalità di una società fondata sulla reciprocità delle prestazioni) rivela ogni giorno di più la sua incapacità a risolvere gli stessi problemi da esso suscitati.
    L'homo oeconomicus è chiamato ad apprendere la lezione dei santi, che è poi la lezione del vangelo: «Date nihil inde sperantes»; è chiamato a imparare a dare (e a fare e a servire) non soltanto nella misura del contraccambio sperato e calcolato, e quindi del profitto personale, ma anche in quella, meno lusingante e più severa, del bisogno altrui.
    Solo così i poveri della terra, quelli che sono tali nel senso più pesante del termine, e che non hanno nulla da dare in cambio, nessuna prestazione efficiente da offrire a coloro che hanno e che possono, riceveranno in proporzione ai loro bisogni sconfinati e alle possibilità dei loro fratelli più fortunati, invece di essere lasciati a se stessi, in un ordine economico che tende a renderli sempre più poveri e a imprigionarli sempre più nella loro inefficacia e nella loro irrilevanza.

    Gratuità e perdono

    La gratuità di Dio rifulge più che in ogni altro dono nel perdono con cui ci vengono rimessi i nostri debiti, le nostre continue passività nei confronti del suo amore rispetto al quale il nostro può essere sempre solo inadeguato.
    Il perdono di Dio non è peraltro un condono legale, una specie di «fictio iuris» che ci lascerebbe in fondo prigionieri della nostra nullità: è una nuova creazione, una rigenerazione che produce una vera rinascita.
    È la forza rinnovatrice di un amore più forte del nostro stesso rifiuto che si esplica in un rapporto da parte sua sempre creativo e da parte nostra sempre (e purtroppo soltanto parzialmente) recettivo.
    Perdonati al di là di ogni misura siamo chiamati a perdonare; ad amare, di un amore che cerca di essere eroicamente gratuito, gli stessi nostri nemici.
    La salvezza di Cristo non ci raggiunge individualmente ma ci apre gli uni agli altri nella gioia del perdono reciproco. È solo attraverso la gratuità del perdono che può venire agli uomini, in una riconciliazione sempre rinnovata, quella pace e quella fraternità che preparano e prefigurano la piena comunione del Regno di Dio.

    Conflittualità e riconciliazione

    L'organizzazione della vita sociale pone i singoli e i gruppi in condizione di godere in modo molto disuguale dell'accesso ai beni limitati prodotti dal lavoro e dall'intelligenza dell'uomo e di contribuire alla loro produzione con costi di penosità e di fatica altrettanto disuguali e spesso inversamente proporzionali.
    I confini di questa disuguale divisione sono spesso decisi più con il diritto della forza che con la forza del diritto: questo spiega come molti uomini pensino oggi che il modo più realistico per operare la giustizia nel mondo (un mondo segnato così profondamente dall'ingiustizia costituita in «ordine») debba partire da un conflitto radicale ed assoluto tra oppressori ed oppressi, tra sfruttati e sfruttatori.
    Soltanto la lotta di classe, una lotta senza altre leggi che l'urgenza della vittoria, può ristabilire l'equilibrio della giustizia in un mondo dove esso è così profondamente stravolto. Del resto - dicono i difensori di questa opzione per la lotta -, il conflitto e la guerra di ognuno contro tutti è sempre stata la vera forza motrice e la vera realtà portante della storia.
    Questa enfatizzazione del conflitto, questa interpretazione «polemica» (in senso etimologico) della storia non è propria solo del marxismo. La concorrenza capitalistica resta anch'essa una lotta di tutti contro tutti, appena regolata da regole del gioco, di natura più giuridica che morale.
    Ma perfino la riflessione morale cristiana è a volte ispirata più di quanto sembri a una certa visione conflittiva della realtà sociale.
    La giustizia è spesso pensata come una «Convenzione di Ginevra» che regola le modalità di una guerra, solo per renderla meno selvaggia, o come la definizione delle condizioni di una tregua fragile e precaria, tra soggetti tendenzialmente nemici, perché divisi da interessi contrapposti. Come conciliare l'imperativo della gratuità e del perdono con questa realtà conflittuale, cui sembra non solo impossibile ma addirittura immorale e ingiusto sfuggire cercando una improbabile e discutibile neutralità?
    Ci sono certamente nel mondo situazioni diffuse di ingiustizia in cui il credente non può restare neutrale.
    Non si può restare neutrali di fronte all'oppressione e allo sfruttamento. Una neutralità del genere sarebbe oltretutto illusoria e finirebbe per coprire una forma inconsapevole ma reale di appoggio ai potenti e agli oppressori.
    La coscienza del credente è chiamata in questi casi a una solidarietà con gli oppressi che comprende la partecipazione attiva alla loro lotta di liberazione.
    Ognuno è chiamato a discernere, insieme a tutta la comunità di fede (nella sua organica strutturazione e quindi con l'aiuto e la guida del magistero) queste situazioni, di cui sembra lecito pensare che siano tutt'altro che dei casi-limite.
    E tuttavia una totale identificazione con il conflitto sociale fino alla sua mitizzazione, fino alla condivisione senza riserve di una verità di classe e di una lotta di classe come l'unica forza di salvezza operante nella storia è incompatibile con la fede e la visione dell'uomo e del mondo che essa comporta.
    Questa mitizzazione travisa la realtà della storia così come appare al credente, nella luce della croce.
    Già da un punto di vista puramente umano non è difficile comprendere e riconoscere come gli interessi (magari non quelli più immediati e superficiali ma quelli più profondi e vitali) sia degli uomini che dei gruppi non sono solo concorrenti ma anche complementari: esiste una solidarietà di fatto con leggi oggettive e irreversibile efficacia all'interno di ogni forma di convivenza umana.
    Si tratta di una reale catena di condizionamenti reciproci che fa di ogni uomo un essere raggiunto dall'apporto di tutti gli altri uomini del passato e del presente e a sua volta centro attivo di influssi irreversibili.
    In una situazione del genere la mitizzazione della conflittualità si risolve in una perdita secca per tutta l'umanità.
    In una lotta assoluta e totale, in una ricerca della giustizia portata avanti ad oltranza e con tutti i mezzi, non si danno veri vincitori ma soltanto vinti. Il costo umano di questa impossibile giustizia che sta sempre al di là della lotta è troppo grande in termini umani perché valga la pena di essere perseguita. La spirale irreversibile dell'odio che essa ha bisogno di scatenare non può condurre a nessuna fraternità e a nessuna società degna dell'uomo.
    Questo è stato sempre vero, ma ci sembra oggi ancora più vero che mai. La stessa sopravvivenza dell'umanità è in pericolo e dipende dalla capacità dell'uomo di farsi consapevole e responsabile nei confronti di questa solidarietà reale, con cui deve in ogni modo fare i conti.
    Secondo A. King, un membro del famoso «Club di Roma», le qualità dure dell'uomo (aggressività, egoismo e cupidigia) che pure avrebbero avuto un certo peso biologico di pressione selettiva nell'evoluzione della specie, sarebbero ormai divenute dannose per la sopravvivenza della specie stessa, che può essere salvata solo dalla prevalenza delle qualità opposte, come la solidarietà, la ragionevolezza, la disponibilità.
    Ma in presenza di una ingiustizia reale e persistente, l'appello a queste qualità può risultare inutile e sterile, una predica inascoltata, se non si sanno offrire all'uomo che ne è vittima ragioni sufficienti per un atteggiamento di gratuità.

    Cristo speranza di pace

    Queste ragioni sufficienti il credente sa che si trovano soltanto nella croce di Cristo; nella vittoria e nel trionfo del crocifisso, lo sconfitto che è morto perdonando, si fonda la sensatezza di ciò che da un punto di vista umano può apparire insensato: la gratuità di chi rinuncia a portar fino in fondo la difesa dei suoi diritti, di chi rifiuta a perseguire la «sua» giustizia fino all'odio dei nemici e alla lotta assoluta e senza leggi, come unica speranza di vittoria.
    Soltanto Dio è in grado di assicurarci che, in questa rinuncia a perseguire ad ogni costo ciò che ci spetta o che crediamo spettarci, non abbiamo nulla da perdere e tutto da guadagnare.
    E in Cristo risorto Dio ci ha dato questa garanzia.
    Dio si è impegnato per il suo progetto di riconciliazione universale, di giustizia definitiva, con una promessa indefettibilmente fedele.
    Essa alimenta una speranza che non sarà confusa; ma solo nella misura in cui coinvolge in un impegno serio di riconciliazione e di remissione.
    La logica della riconciliazione e del perdono non ci defila necessariamente dalla lotta inevitabile per un mondo più giusto dalla realistica gestione dei conflitti ad essa inerenti ma ci aiuta a far sì che la giustizia che perseguiamo non sia la «nostra giustizia, quella che deve riparare i torti subiti da «noi» e pareggiare i «nostri conti in passivo con i «nostri» nemici, ma sia la giustizia-per-gli-altri, quella che passa sui nostri interessi egoistici e sui nostri privilegi.
    La certezza che ci sono rimessi gratuitamente i nostri debiti ci dà la forza di saper perdonare i nostri debitori e di amare coloro che la obiettiva contrapposizione degli interessi immediati fa sembrare nostri nemici.


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