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    L'emergenza educativa

    oggi in Italia

    Gianni Ambrosio

    L’emergenza educativa non è ‘un problema’ esaminabile nei suoi diversi risvolti con analisi puntuali ed esaurienti. La questione educativa, infatti, coinvolge tutto e tutti, dai giovani alla famiglia, dalla scuola alla cultura, dalla politica alla società. Senza trascurare, naturalmente, la Chiesa che fin dalla sua origine ha ricevuto il mandato di evangelizzare e di educare, con l’ “euntes ergo docete” (Mt 28, 19) con cui Cristo inviò nel mondo i suoi discepoli.

    Per cercare di trattare in modo adeguato l’emergenza educativa nelle sue diverse implicazioni, occorrerebbe un’attenta analisi dello sfondo del sistema sociale per arrivare a capire alcune ragioni della difficoltà di educare in questo contesto. Occorrerebbe poi mettere a fuoco lo scenario culturale che caratterizza lo spirito del tempo (Zeitgeist) e le sue forme culturali: ciò aiuterebbe a comprendere il complesso rapporto tra giovani e società adulta nel momento in cui la cultura pubblica ha rinunciato ad affrontare le grandi questioni di senso della vita. Ovviamente sarebbe di grande aiuto lo scenario religioso, in quanto la dimensione religiosa è fortemente implicata nell’atto educativo, come suo fondamento, innanzitutto, e poi anche come suo orizzonte di senso e di speranza. Ci riferiamo in particolare a quel profilo religioso di base che, a livello antropologico, qualifica decisamente la relazione tra genitori e figli: proprio nella relazione con i genitori, il figlio trova la possibilità di credere alla vita e scopre le condizioni e le motivazioni per dedicarsi alla causa della vita: su questa fondamentale valenza antropologica-religiosa del rapporto educativo si sviluppa l’iniziazione cristiana o l’educazione alla fede cristiana[1]

    Senza soffermarsi nell’analisi dettagliata, questo sfondo complessivo del contesto socioculturale e religioso è tenuto presente da Benedetto XVI che, in diverse occasioni, arriva ad individuare le radici dell’emergenza educativa alla luce delle grandi questioni del valore della persona, del senso della vita, del significato della verità e del bene. Queste domande di senso sono intimamente legate all’educazione che non si limita a fornire conoscenze e a far acquisire competenze ma mira ad offrire i tratti di un concreto progetto di vita che risponde alle grandi questioni e fa crescere la coscienza e la libertà di un ragazzo o di un giovane[2].

    Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI, dopo aver rammentato che “con il termine educazione non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona”, evidenziava l’aspetto problematico della situazione attuale: “per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. L’affer­marsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi all’educazio­ne, soprattutto all’educazione morale, pregiudicandone l’estensione a livello universale” (n. 61). Insieme a questa visione relativistica che rende problematica l’educazione, il Papa evidenzia anche un’altra causa, ravvisata nel “falso concetto di autonomia”. In modo sintetico ma preciso e puntuale, Benedetto XVI, nel Discorso rivolto ai Vescovi italiani riuniti in Assemblea (27 maggio 2010), dopo aver lodato la scelta dell’educazione come “tema portante per i prossimi dieci anni”, indica le due “radici profonde” dell’emergenza educativa, e cioè il relativismo e il falso concetto di autonomia. Ci soffermiamo su queste radici che sono all’origine della situazione della grave difficoltà di educazione nel nostro Paese.    

    1. L’orizzonte del relativismo

    1.1. Il dubbio sulla bontà della vita

    È opportuno partire dalla famosa Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008, in cui il Papa riassumeva le difficoltà educative nella formula dell’ “emergenza educativa”, espressione che poi è stata abbondantemente ripresa. Nella Lettera il Papa scriveva: “Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande ‘emergenza educativa’, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una ‘frattura fra le generazioni’, che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare?

    È certamente forte, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un'atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita”.

    Il Papa riconosce che in qualsiasi epoca educare non è mai stato facile, ma oggi risulta più difficile. Non si tratta di incolpare le nuove generazioni, non si tratta neppure di incolpare le generazioni adulte. Anche se, in verità, la mancata trasmissione di valori è certamente dovuta alle generazioni adulte: il vuoto educativo è dovuto alla latitanza di padri e di maestri. In particolare, i genitori, forse anche a causa delle difficoltà educative, hanno lasciato ampio spazio ai ‘tecnici’ della formazione, i quali, in verità, non hanno a cuore l’educazione ma i processi di crescita del minore, il suo benessere o la sua salute o la sua capacità di inserirsi nel rapporto sociale. I ‘tecnici’, che si richiamano alle nuove scienze, si interessano di didattica, di metodo, di trasmissione di abilità, si occupano dei processi di identificazione, per quanto concerne la psicologia e la pedagogia dell’età evolutiva o dei come processi di socializzazione, per quanto concerne il rapporto sociale. Il compito dell’educazione, come compito morale in quanto responsabilità specifica del genitore nei confronti del figlio, o comunque dell’adulto nei confronti del minore, svanisce: viene meno l’adulto e la sua responsabilità di testimone che comunica il senso della vita insieme alla qualità della sua vita, e così introduce il figlio nella realtà della vita.  

    Se a questa latitanza dell’adulto e del suo compito morale, si aggiungono le pesanti forme culturali che arrivano a dubitare del valore della persona umana, del significato della verità e del bene, della bontà della vita, il processo educativo si blocca. Benedetto XVI chiama in causa il relativismo che era stato individuato come una delle principali cause dell’emergenza educativa già nel Discorso pronunciato il 6 giugno 2005 all’apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma dedicato a Famiglia e comunità cristiana: formazione della persona e trasmissione della fede: “Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l’uno dall’altro, rendendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio ‘io’. Dentro a un tale orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza la luce della verità, prima o poi ogni persona è infatti condannata a dubitare della bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune. È chiaro dunque che non soltanto dobbiamo cercare di superare il relativismo nel nostro lavoro di formazione delle persone, ma siamo anche chiamati a contrastare il suo predominio distruttivo nella società e nella cultura”[3].

    1.2. La realtà sfuggente

    Le riflessioni di Benedetto XVI sulla “dittatura del relativismo” hanno indubbiamente contribuito al dibattito che ha avuto una vasta risonanza. Soprattutto per il contesto italiano, merita di essere messo a fuoco un particolare aspetto del relativismo, e cioè la tendenza o moda culturale molto diffusa anche nel nostro Paese che arriva a negare i fatti per esaltare l’interpretazioni dei fatti, ostacolando così la stessa comprensione della realtà sociale e dunque l’educazione. Diventa infatti residuale, o addirittura inutile, l’educazione in una realtà sfuggente, senza senso. Le gravi conseguenze di questa tendenza che, con il sopravvento delle interpretazioni, fa perdere di consistenza il mondo reale sono ben descritte in questa sintetica analisi: “La scomparsa dei fatti produce un effetto devastante. Tutte le nostre radici vengono costantemente recise e noi diventiamo come una barca senz’ancora, in balia dei venti, sperando di poterci aggrappare a qualcosa, ma senza avere a portata niente di solido: né la storia, né la tradizione, né un culto, né una istituzione affidabile, né un imperativo assoluto o l’ancoraggio a qualcosa di sacro al di là della storia: anzi, neppure un universo fisico ed una matematica positivista che non sia relativa. Siamo senza radici! Vi è una solitudine che deriva dal sentirci così alla deriva (…). Abbiamo bisogno di qualcosa che non sia relativo, che non possa essere demolito, e quando non l’abbiamo il nostro cuore sente che gli manca qualcosa”[4].

    Sono diversi gli studiosi che hanno affrontato e discusso questo aspetto del relativismo, con particolare attenzione all’educazione. Non è possibile soffermarci sulla vasta letteratura, ma segnalo alcune pubblicazioni.

    La prima, curata da G. Chiosso[5], presenta alcune riflessioni che, pur da posizioni e orientamenti diversi, convergono nell’esplicita vocazione educativa dell’uomo, riconosciuto come capace di senso, di comprensione, di relazione con gli altri.

    L’altra pubblicazione che merita di essere ricordata è quella di Giovanni Jervis, psichiatra, che, dopo aver collaborato con E. De Martino e F. Basaglia e dopo aver pubblicato in italiano Marcuse e Lacan, in un libro emblematicamente intitolato Contro il relativismo[6] ha scritto pagine severamente critiche nei riguardi del relativismo culturale, soprattutto d’impronta antropologica. È interessante la ridiscussione da parte di questo studioso di una tesi, a suo tempo condivisa e per alcuni aspetti non del tutto rifiutata, che è però diventata un orizzonte indiscusso, un cliché alla moda che conduce alle visioni più paradossali. 

    La terza pubblicazione è La sfida educativa, pubblicata a cura del Comitato per il Progetto Culturale della CEI[7]. L’intento di questo ottimo ‘rapporto-proposta’ è quello di superare sia la prospettiva settoriale e parziale di educazione sia il dibattito sulle metodologie pedagogiche per affrontare la questione antropologica del fatto educativo, ricercandone il fondamento in una concezione profonda e vera della persona e dell’esperienza umana.

    Non possiamo non tenere presente chi ha messo a fuoco con molta profondità questa progressiva scomparsa della realtà che rende non solo problematica ma “impensabile” l’educazione.  Si tratta del cardinale Carlo Caffarra che, con estrema lucidità, ha denunciato la drammatica deriva di questa tendenza. In un suo intervento del 2004, in occasione del Convegno regionale del Centro sportivo italiano[8], Caffarra attua una stringata diagnosi della situazione della cultura post-moderna che arriva a negare l’esistenza di un originario rapporto della persona umana con la realtà: questa cultura rende “impraticabile l’atto educativo poiché lo ha reso impensabile”, afferma il cardinale.

    Rinviando alla riflessione proposta dal cardinale Caffarra, qui sintetizzo solo alcuni aspetti della sua argomentazione. Caffarra parte dalla ‘definizione’ dell’atto educativo proposta da J. A. Jungmann: educare significa “introdurre una persona nella realtà”[9].

    Ricordo, per inciso, che anche padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica di Milano, invitava i docenti ad una visione culturale aperta e sempre attenta alla realtà, perché i giovani – per usare la sua espressione – devono entrare nel “cuore della realtà” e devono dunque essere aiutati a farlo da testimoni attendibili. È, questo, un aspetto fondamentale della difficoltà di educare in quanto se entra in crisi il nesso che unisce il nostro essere con la realtà viene a mancare il nostro più intimo e più solido fondamento[10]. Tanto più che la rottura del nesso con la realtà rende difficile comprendere la natura della ragione e il suo uso[11]. Alla luce della ‘definizione’ di educazione come introduzione nella realtà, Caffarra, dopo averne esplicitato il senso, afferma che l’atto educativo introduce nella realtà quando la persona arriva a “conoscere la verità e il valore della realtà medesima: quando questa persona ne sa dare perciò un’interpretazione sensata, quando ha trovato la propria “casa nel mondo interpretato” (R. M. Rilke). Per cui “solo se si pensa che possa esistere un rapporto dell’uomo colla realtà: un rapporto istituito dalla nostra intelligenza e dal nostro desiderio ragionevole. Un rapporto reso possibile e dalla costitutiva apertura della persona alla realtà e dalla originaria intelligibilità e bontà della realtà. Solo se questo è il rapporto originario fra persona e realtà, è pensabile, e quindi praticabile, un agire educativo inteso come “introduzione nella realtà”.

    Per il cardinale Caffarra la “scelta educativa” vuol dire contrapporsi in modo radicale alla “cultura attuale (la cosiddetta post-modernità) (che) è dominata dalla negazione di quel rapporto originario: non esiste una realtà da interpretare. Esistono solo delle interpretazioni della realtà, sulle quali è impossibile pronunciare un giudizio veritativo, dal momento che esse non si riferiscono a nessun significato obiettivo. Siamo chiusi dentro al reticolato delle nostre interpretazioni del reale, senza nessuna via di uscita verso il reale medesimo”.

    L’appassionata analisi di Caffarra interpella dunque con radicalità la società adulta: “La generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni ("è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi") o diventa la generazione che apre la porta di casa della generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo” [12].

    2. La falsa autonomia

    2.1. La negazione della vocazione trascendente e relazionale

    Nel Discorso rivolto all’Assemblea Generale della Cei, Benedetto XVI ha affermato: “Una radice essenziale (dell’emergenza educativa) consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’ ‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘noi’, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’ ‘io’ a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo ‘tu’ e ‘noi’ nel quale si apre l’ ‘io’ a se stesso. Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un ‘io’ completo in se stesso, mentre diventa ‘io’ anche nell’incontro collettivo con il ‘tu’ e con il ‘noi’” .

    Questa radice profonda dell’emergenza è accolta negli Orientamenti della CEI che, soprattutto nel n. 9, evidenzia i nodi critici dell’educazione con particolare attenzione alla questione antropologica: “l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività”. Questi nodi critici portano allo “smarrimento del significato autentico dell’educare” che comporta l’apertura, la relazione, il dono di sé. In riferimento alla falsa idea di autonomia individuata dal Papa, il documento della Cei denuncia il “mito dell’uomo che si fa da sé” e la “falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un ‘io’ completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il ‘tu’ e con il ‘noi’ ”: ciò “finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita”.

    Per cui, conclude il documento Cei, “le cause di questo disagio sono molteplici – culturali, sociali ed economiche -, ma al fondo si può scorgere la negazione della vocazione trascendente dell’uomo e di quella relazione fondante che dà senso a tutte le altre: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia»” (Caritas in veritate, 78).

    2.2. I limiti della socializzazione

    Queste preziose indicazioni sollecitano un approfondimento per arrivare a riconsiderare con attenzione le diverse implicazioni che derivano dalla situazione di disagio educativo. Suggerisco due possibili approfondimenti che tengono conto del nostro Paese.

    Innanzi tutto sono da considerare gli effetti disastrosi del modello della “socializzazione orizzontale”, con la negazione del principio di autorità/autorevolezza e con l’accentuazione dell’individualismo e dell’autosufficienza[13]. Questo modello, che si è diffuso a partire dalla contestazione del ’68, si è poi propagato in modo massiccio e senza alcuna valutazione critica, dagli anni ‘90, causando la tendenza sempre più accentuata dell’individualismo e dell’autosufficienza. Nella radicalizzazione di questa tendenza, fra le generazioni non esisterebbe più alcun rapporto significativo né una trasmissione di verità e di senso ma solo una coabitazione fatta di reciproco silenzio. Sarebbe annullato, in quanto senza valore e senza senso, l’atto di educare. Non verrebbe più formulata una proposta educativa da parte degli adulti e, d’altra parte, non verrebbe più avanzata dai giovani la domanda di educazione. Si presterebbe attenzione solo all’offerta di abilità pratiche e di competenze funzionali, si offrirebbero solo nozioni ed informazioni. Si tratta ovviamente di una tendenza radicalizzata, ma si deve constatare che si va diffondendo in certi contesti culturali l’idea che si vivrebbe meglio in una società che ha svuotato di senso anche i legami sociali più profondi, dopo aver provocato la desertificazione dei simboli religiosi: così si assicurerebbero margini assai più ampi all’autonomia individuale. Si tratta di una sorta di ‘egolatria’, di pulsione egocentrica che viene presentata come forma culturale narcisistica, quasi una nuova religione che ha al suo centro il culto dell’ego.   

    Certamente meno drastico, ma ugualmente problematico, è un altro aspetto importante del disagio educativo, e cioè il passaggio da una famiglia normativa a una famiglia affettiva[14]. La nuova famiglia tende a rappresentare se stessa come luogo privilegiato di relazioni e di protezioni: i genitori pongono al centro del rapporto con il figlio (spesso unico) la dimensione affettiva. Questa centralità, che favorisce la comunicazione, il dialogo, l’ascolto, elementi fondamentali per la crescita verso la maturità, sembra rendere timorosi, incerti e deboli i genitori nel proporre mete precise. Sembra quasi che i genitori della famiglia affettiva non possano assumersi la propria responsabilità di padri e di madri nei confronti dei figli: più che educatori i genitori si considerano accompagnatori della crescita.

    Il rischio è che i giovani, come veniva segnalato da un’indagine di anni fa, si trovino “senza padri né maestri”[15]. Come sappiamo – molti fatti lo attestano e molte indagini lo documentano –, sono decisamente problematiche le dinamiche psico-sociali dell’attuale sviluppo adolescenziale e giovanile sia per la socializzazione orizzontale sia per la socializzazione affettiva e adattiva[16]. Queste forme di socializzazione non vengono incontro all’esigenza e alla domanda di identità, di stabilità, di coerenza, di logica, di sintesi dei giovani e sono ben lontane da una seria proposta educativa. Occorre invece che i giovani possano incontrare persone adulte che, grazie alla relazione educativa, adulti che testimonino un convincente ‘gusto della vita’ nel loro modo di affrontare il reale e di reagire nelle situazioni concrete e siano quindi educatori che non solo propongano qualcosa ma che siano essi stessi convincente proposta di vita buona. Altrimenti la generazione giovanile, carente di precisi e saldi criteri di riferimento, non potrà che affidarsi alle fragili e mutevoli esperienze quotidiane. Così crescono decisamente, come le analisi di Z. Bauman evidenziano[17], le difficoltà di una maturazione umana in ragione dell’incertezza e dell’instabilità della società liquida che rende tutto precario e per la fluidità e l’incoerenza dei sistemi: è evidente che, nella confusione della propria soggettività personale, molti giovani assolutizzano ciò che è fragili e relativo, assumendolo come fonte di certezza.

    Conclusione

    Benedetto XVI, mettendo in risalto le radici dell’emergenza educativa, ha inteso venire incontro all’esigenza molto avvertita di comprendere quale è la posta in gioco dell’educare e quindi di “non cedere”, pur nelle difficoltà, “alla sfiducia e alla rassegnazione”. Per il Papa questo è il momento di dar vita ad “un’ampia convergenza di intenti”, accettando la sfida di “proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita”(Discorso). Nelle sue analisi e nelle sue indicazioni riguardanti la frontiera educativa, il Papa invita la ragione umana – una ragione aperta e allargata - a svolgere il suo compito per aiutare ad entrare in rapporto con il mondo e a trovare risposte di senso alla cultura del nostro tempo e alle aspirazioni più profonde del cuore dell’uomo. La riflessione sulle cause dell’esilio educativo intende sollecitare l’impegno di ogni persona e delle diverse istituzioni per rimuoverle e per ridare così diritto di cittadinanza all’educazione e possibilità effettiva di educare nella nostra società.

    Inoltre il Papa invita tutti a ricordare che l’ “anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile” (Lettera). Proprio a questa “speranza affidabile” e alla missione educativa della Chiesa, si richiama il documento sull’educazione della Cei che, accogliendo l’invito del Papa, lo commenta con queste parole: “La sua sorgente (della speranza affidabile) è Cristo risuscitato da morte. Dalla fede in lui nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità di amare. In questo noi individuiamo il contributo specifico che dalla visione cristiana giunge all’educazione, perché «dall’essere ‘di’ Gesù deriva il profilo di un cristiano capace di offrire speranza, teso a dare un di più di umanità alla storia e pronto a mettere con umiltà se stesso e i propri progetti sotto il giudizio di una verità e di una promessa che supera ogni attesa umana» (Caritas in veritate, n. 78). Mentre, dunque, avvertiamo le difficoltà nel processo di trasmissione dei valori alle giovani generazioni e di formazione permanente degli adulti, conserviamo la speranza, sapendo di essere chiamati a sostenere un compito arduo ed entusiasmante: riconoscere nei segni dei tempi le tracce dell’azione dello Spirito, che apre orizzonti impensati, suggerisce e mette a disposizione strumenti nuovi per rilanciare con coraggio il servizio educativo” (n. 5).

    Convegno Nazionale ConFederex, Fiesole, 21 maggio 2012



    [1] Cf G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 2003; cf pure Id., Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002.

    [2] Per una presentazione complessiva dell’insegnamento di Benedetto XVI sul tema dell’educazione, cf D. Petti, Dialogo sull’educazione con Papa Benedetto XVI, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011. 

    [3] Per una visione complessiva del magistero di Benedetto XVI sul relativismo, cf M. Introvigne, Tu sei Pietro. Benedetto XVI contro la dittatura del relativismo, Sugarco, Milano 2011.

    [4] R. Rolheiser, Il cuore inquieto. Alla ricerca di una casa spirituale in un tempo di solitudine, Brescia, 2008, pp. 88-89.

    [5] G. Chiosso (a cura di), Sperare nell'uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, Sei, Torino 2009.

    [6] G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza, Bari-Roma 2005. G. P. Prandstraller rileva che “nella parte terminale del Novecento si è manifestato, nelle aree più avanzate, un fenomeno di grande rilievo culturale: l’avvento del relativismo come costume sociale, fatto pratico, mentalità”, in  G. P.  Pranstraller, Relativismo e fondamentalismo, Laterza, Bari-Roma, 1996, VII. Cf pure V. Possenti -  A. Massarenti (a cura di), Nichilismo, Relativismo, Verità. Un dibattito,Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001.

    [7] Comitato per il Progetto Culturale della Cei (a cura di), La sfida educativa. Rapporto-proposta sull’educazione, Laterza, Bari-Roma 2009; cf anche C. Ruini, La questione dell'educazione al tempo del relativismo. Identikit di un'emergenza inevitabile, in L’Osservatore Romano, 2-3 febbraio 2009. 

    [8] C. Caffarra, L’educazione: una sfida urgente, Convegno regionale A scuola di valori in parrocchia, organizzato dal Centro Sportivo Italiano (Csi), 29 aprile 2004; cf pure Emergenza educativa: impegno, bellezza, fatica di educare, Castel S. Pietro Terme, 6 novembre 2007; Sport e famiglia. Proposta educativa cristiana ed esercizio dello sport, Bologna 2007; Emergenza educativa, scuola e comunità cristiana, Convegno Nazionale dei direttori diocesani degli uffici di pastorale scolastica, Villanova, 13 febbraio 2008; La questione educativa come questione politica, Lecco, 13 aprile 2012).

    [9] J.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt religiöser Erziehung, Herder, Freiburg im Bresgau 1939.  

    [10] Cf M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina editore, Milano 1996.  

    [11] Cf A. Gamba (a cura di), Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Milano 2007. 

    [12] Sul nichilismo giovanile, cf l’analisi fredda U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2009. L’A. vorrebbe andare oltre l’analisi fredda e insegnare ai giovani l' ‘arte del vivere’ all’insegna di una modesta visione di felicità che annulla la domanda di senso e si limita a  riconoscere e a esplicitare le proprie capacità.

    [13] Cf E. Besozzi, Il processo di socializzazione nella società moderna e contemporanea, in L. Ribolzi (a cura di), Formare gli insegnanti. Lineamenti di sociologia dell’educazione, Carrocci, Roma 2002; P.P. Donati - I. Colozzi (a cura di), Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutra, Il Mulino, Bologna 1997; G. Ambrosio, Formazione e socializzazione: crisi del soggetto nella società complessa, in Aa.Vv., Il primato della formazione, Glossa, Milano, pp. 25‑48.

    [14] Cf  AA.VV., Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002. 

    [15] L. Ricolfi - L. Sciolla, Senza padri né maestri. Inchiesta sugli orientamenti politici e culturali degli studenti, Bari, De Donato, 1980. cf G. Ambrosio, Una società senza padri?, in «La Rivista del clero italiano», 1999, 1, pp. 5‑24.

    [16] F.  Garelli - A. Palmonari - L. Sciolla, La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, Bologna, Il Mulino, 2006).

    [17] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 2000; cf pure Id., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999; La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000. 


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