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    Le radici dell'indifferenza

    e il paradosso della società individualista

    Introduzione alla ricerca CENSIS “La tentazione del tralasciare”



    La ricerca del Censis «La tentazione del tralasciare» è stata presentata il 6 aprile 2024 a Roma presso la Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso e discussa da Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, e Laura Lega, Capo Dipartimento Libertà civili e immigrazione del Ministero dell’Interno.

    Ci troviamo oggi di fronte a uno strano paradosso: viviamo in una società decisamente soggettivista, ma con soggetti deboli; fortemente individualista, ma con scarsa forza di affermazione individuale, una società egoista ma fatta da ego fragili. Siamo tutti consapevoli della crescente dose di indifferenza che pervade il mondo: indifferenza verso gli altri, verso l’ambiente (tutti si lamentano, ma poi nessuno vuol rinunciare al suo stile di vita), eppure quella stessa indifferenza sembra che poi, come in uno specchio, chi la prova, finisca per rivolgerla anche verso se stesso.
    Per questo motivo vince sempre più il tralasciare, la rinuncia alla sfida, allo sforzo e alla competizione; in termini ecclesiastici verrebbe da dire che oggi più che del peccato fatto da “pensieri, parole e opere” dovremmo preoccuparci del peccato di “omissione”.
    La società, come la Chiesa, ha pochi strumenti per contrastare il disinteresse all’azione, all’omissione cioq; per questo motivo, cercando di riflettere sull’indifferenza, ci è sembrato opportuno analizzare le cause profonde dell’inazione, anche in considerazione del fatto che il fenomeno dell’indifferenza è descritto diffusamente e da molto tempo sia in ambiente ecclesiale che laico, in modo particolare a Roma.
    Ne emerge un mondo in cui alla sovrabbondanza di mezzi corrisponde un deficit di fini, vale a dire che a una sovrabbondanza di intelligenza speculativa – per dirla alla Rosmini – corrisponde una scarsità di intelligenza trascendente; in altre parole, tralasciamo per una crisi di motivazione, serve allora un’antropologia dei fini, se non si vuol parlare di trascendenza e di sovrannaturale.
    E serve non perché la Chiesa, i professionisti dello spirito o gli intellettuali dei fini premono per ritrovare un ruolo che sentono di aver perduto, ma perché un vuoto, che pria era sordo, sta cominciando a farsi sentire.
    Non q più sufficiente quindi ripetere moralisticamente che serve “senso di responsabilità” perché l’individuo soggettivizzato, suggestionato continuamente da oggetti di consumo, cioè da mezzi, non sa che farsene di una morale, ha bisogno prima di trovare un completamento alla sua soggettività, una motivazione più profonda e che la morale tradizionale non sa dare, vale a dire la costruzione di una “vita buona”, una vita cioq esistenzialmente più complessa di una vita in cui “si q fatto del bene” o peggio “non si q fatto del male”.

    1. COMUNITÀ

    Siamo tutti immersi in un grigiore, al 66,2% degli italiani non piace la società in cui vive (tab. 1), percentuale che sale drammaticamente al 72% tra i giovani e che scende con l’alzarsi dell’età, contraddicendo il luogo comune degli anziani perennemente scontenti del mondo di oggi.
    Tradizionalmente si è sempre pensato che gli italiani siano scontenti della società nel suo insieme (il Paese), ma affezionati alla propria “comunità”, una visione che rischia di affievolirsi: solo il 15,3% degli italiani sente di appartenere pienamente a una comunità (famiglia esclusa) e il 42,5% ci si sente in parte, mentre il 32,1% non ci si sente e non gli interessa, percentuale che sale al 36% presso i giovani e scende al 27,6% presso gli anziani. Infine, il 10,1% del campione ammette che gli dispiace non sentirsi parte di una comunità. Più della metà dei giovani non si sente parte di una comunità e di questi 3 su 4 non ne sentono la mancanza.
    Significativo che la comunità è specialmente quella religiosa, la percentuale di chi si riconosce pienamente in una comunità sale, infatti, al 36,8% presso i cattolici praticanti, evidentemente il termine comunità viene associato più alla Chiesa che al territorio (tab. 2 ).

    2. ESSERE PARTE DI UN CAMMINO

    Lo scarso senso di appartenenza a una comunità si sposa con la sensazione di contare poco nell’ambiente in cui si vive, sensazione che vive il 48,3% degli italiani (tab. 3).
    Addirittura, il 55,9% tra i giovani.
    Uno dei motivi di ciò è il fatto che le persone sentono di avere scarso controllo sugli eventi, il 55,7% è di questo avviso e in questo caso non ci sono particolari differenze di età (tab. 4), in sostanza la maggior parte degli italiani sente di non avere presa sugli eventi. La vita sembra passare senza un senso vero e proprio, perché vince la casualità. Anche questo vale per circa la metà degli italiani: il 48,3 % (tab. 5).
    L’atteggiamento q leggermente più ottimistico quando si fa riferimento all’idea di lasciare un segno di sé dopo la morte: ebbene il 62,7% non ritiene di poter dire che non lascerà alcun segno, anche se il 37,3% pensa che non lascerà nulla di significativo dopo di sé (tab. 6).

    3. IL SENSO DELLA VITA

    Sembrerebbe che tutto ciò nasconda una grave carenza di senso, che la gente fatichi a trovare un senso nella vita. Eppure, per il 54,8% degli italiani vale l’affermazione: “ci ho messo un po’, ma posso dire di aver trovato il senso della mia vita”. È vero che, anche in questo caso, per i giovani questa affermazione vale meno, ma è tipico dell’età giovanile (tab 7). Ci si aspetterebbe allora di trovare una società malinconica e nostalgica e invece se chiediamo al nostro campione se è d’accordo con l’affermazione: “il meglio della vita è già passato?”, il 65,6% di essi si dice non d’accordo. Addirittura il 53,1% degli over 64 anni. Ma allora viene da pensare che sia davvero la società circostante a essere malata e non l’animo dei nostri intervistati, che il problema lo vedano intorno a loro e non dentro di loro (tab. 8).

    4. LA DIMENSIONE SPIRITUALE

    A questo punto, è quindi giusto addentrarsi nelle aspettative spirituali degli italiani: il 54,3% di loro sente che qualcosa gli manca, qualcosa che i beni materiali non potrebbero dargli (tab 9). Ancora di più, se facciamo la domanda esplicita su quanto sia importante per loro la dimensione interiore e spirituale, il 72,4% degli italiani la ritiene molto o abbastanza importante (tab 10).
    Potrebbe sembrare una risposta scontata: è ovvio che la dimensione interiore intesa in senso generico è importante per tutti ma, anche entrando più nello specifico e chiedendo se c’è un insegnamento che ha contribuito a dare ricchezza alla vita degli intervistati, il 61,1% di essi riconosce che effettivamente la sua dimensione interiore ha una struttura non esclusivamente soggettiva (tab 11) e questa consapevolezza di una spiritualità non solo autoreferenziale è presente sia tra i giovani che tra le persone più anziane.
    Certo, poi quando si chiede come coltivano la loro spiritualità, la maggior parte, il 54,4%, finisce per parlare di sé stesso: “rifletto su me stesso” (erano possibili più risposte) e il 33,3% ricerca la spiritualità nella natura.
    Resta però un 28,6% di persone che approfondisce la propria spiritualità partecipando ai riti della sua religione, vuol dire che, anche chi partecipa saltuariamente alle funzioni, li ritiene un arricchimento spirituale e non una mera formalità.
    Addirittura, il 16,8% di chi si definisce cattolico non praticante dice di pregare o di recitare formule sacre come forma di approfondimento spirituale, infine solo il 4,4% degli italiani considera le discipline olistiche una forma di spiritualità (tab. 12).
    Ma l’individualismo rispunta ancora: per il 52,7% il cammino interiore è un’esperienza soggettiva, mentre il 23,6% lo condivide con le persone vicine.
    Interessante notare che il 20,3% del campione ammette che gli piacerebbe condividere il cammino spirituale con altre persone, un’apertura potenziale che forse meriterebbe più attenzione e più cura (tab. 13).

    5. SCELTE OBBLIGATE

    Altra grande caratteristica dell’individualismo è la libertà, in modo particolare la libertà di scelta. Verrebbe allora da pensare che gli italiani si sentano fortemente liberi di scegliere, invece il 29,5% di essi ha frequentemente la sensazione che qualcun altro ha scelto per loro. Si tratta di circa un terzo della popolazione, senza particolari differenze né di sesso, né di età, né di appartenenza religiosa (tab 14).
    Addirittura, il 12,1 % del campione frequentemente si trova nella situazione di dover far scegliere qualcun altro al posto suo, anche questa è una percentuale che rimane fissa per tutte le categorie (tab 15). Meno drastica l’affermazione: “vorrei che qualcun altro mi aiutasse a scegliere bene”, probabilmente si tratta solo del bisogno di un consiglio, ma anche questo denota scarsa autonomia (tab. 17).
    Nelle decisioni le emozioni hanno un forte peso: per il 46,5% del campione contano più le emozioni che non i ragionamenti (tab 18). Fortunatamente le scelte non sono tutte imponderate: l’87,7% afferma che frequentemente si prende un po’ di tempo per riflettere e scegliere meglio (tab 19).
    Resta comunque il fatto che il 45,5% del campione sente frequentemente di non essere in grado di fare la scelta giusta (tab 20).

    6. FARE DEL BENE O FARE QUALCOSA DI BUONO

    Il disimpegno, il tralasciare, l’abbandono e l’omissione sono per definizione atteggiamenti negativi difficili da contrastare. La stessa Chiesa cattolica ha elaborato vari strumenti per contrastare il peccato “in pensieri, parole e opere”, ma ha sempre avuto meno strumenti per contrastare il peccato di omissione. Tradizionalmente il principale strumento in questo senso era la raccomandazione a fare del bene, il che spesso si traduceva nel compiere “un’azione caritatevole”.
    Eppure, non sembra esserci questo tipo di nostalgia: solo il 17,6% del campione ammette che avrebbe voluto fare del bene, ma poi per egoismo non lo ha fatto (tab. 21).
    Forse occorrerebbe una sincera riflessione sul fatto che una vita buona non si esaurisce in una vita in cui si è fatto del bene, e questo, a dispetto di quanto osservato fin qua, gli italiani sembrano avercelo abbastanza chiaro. Infatti, se chiediamo loro come poter definire una vita degna di essere vissuta, per la metà di essi, il 49,8%, una vita degna di essere vissuta è una vita in cui si è realizzato qualcosa, per il 30,7%, è una vita serena e senza traumi e solo per il 19,5% è una vita in cui si è fatto del bene (tab. 23). E infatti se chiediamo quali sono i rammarichi più sentiti, il 63,8% ammette di sentire il peso di non aver messo a frutto completamente i propri talenti, percentuale che sale al 70% nell’età di mezzo, tra 45 e 65 anni. Solo il 18,5% ritiene di non avere nulla da rimproverarsi. E poco meno del 18% si rammarica di non aver fatto di più per gli altri. Sembra proprio che la parabola dei talenti faccia riflettere gli italiani assai più di quella del buon samaritano (tab 24).
    Non a caso il 47,4% degli italiani si ritrova nella seguente affermazione: “vorrei fare qualcosa di buono, di costruttivo ma non ho modo”, percentuale che sale fino al 55,9% presso i giovani, come a dire: “saresti disponibile a fare opere di beneficenza?” “No, grazie!” “Ti senti chiamato a una vita buona e costruttiva?” “Sì, magari!”.
    Sorprende vedere quanto la voce della Chiesa risulti poco incisiva quando richiama le coscienze a “far del bene”. Se infatti si domanda agli italiani: “quale movimento di sensibilizzazione ha sollecitato maggiormente la sua riflessione negli ultimi anni?”, la risposta “la posizione della Chiesa a favore degli ultimi” risulta essere all’ultimo posto, appena il 16,3% del campione in una domanda in cui erano possibili più risposte (tab. 22). Mentre al primo posto ci sono i movimenti ambientalisti, 42,4%; poi i movimenti per la parità di genere, 36,1%; i movimenti omosessuali, 33,0% e ancora i movimenti pacifisti, 18,2%. Certo conta molto la risonanza mediatica di certe posizioni e bisogna ricordare che i diritti individuali attraversano una stagione di grande vigore, mentre la voce della Chiesa a favore degli ultimi non è una novità, ma una posizione millenaria e quindi “tradizionale”. Resta il fatto che una posizione così apparentemente irrilevante, anche in un mondo che per ¾ si definisce cattolico (praticante o meno), dovrebbe far riflettere su quali siano le aspettative di una società tralasciante: “aiutateci a trovare un senso più alto e non offriteci parole come quelle degli altri! Liberateci da un mondo solo emozionale e non dateci solo emozioni diverse!”
    La vera nostalgia, il vero vuoto di senso, la fragilità dell’io risiedono nel desiderio di una vita buona più che nel semplice far del bene, e allora il superamento del soggettivismo non passa per una generica riscoperta del “noi”, ma per la scoperta di un Io più vasto, il quale inevitabilmente finirà per aprirsi all’altro.
    È quindi strano, ma dovrebbe far riflettere, sentire la maggioranza degli italiani, 71,6%, ritrovarsi nell'affermazione: “non ci sono cose che non si possono fare se uno lo vuole veramente”, da un lato, cioè, osserviamo il totale disimpegno e disincanto verso il mondo e verso le proprie capacità di incidere nella storia, ma dall’altro la convinzione che volere è potere. E se fosse lì che cova l’Io più vasto e potente?
    Verrebbe da chiedersi: “ma perché, se sei convinto che nulla sia davvero impossibile, lasci che altri decidano per te e ti accontenti di vivere senza lasciare un segno?”.
    La risposta è che non si tratta di una crisi di convinzione dettata dalla consapevolezza di non potercela fare, ma di una crisi di motivazione dettata dalla considerazione che, tutto sommato, non ne valga la pena.
    Per questo abbiamo voluto chiudere l’indagine con la classica domanda motivazionale: “Per cosa saresti disposto ad alzarti mezz’ora prima al mattino?”. Ebbene, solo il 7,1% degli italiani, senza alcuna differenza né di età, né di sesso, né di appartenenza religiosa ammette che non si alzerebbe prima per niente al mondo. La preferenza sulla motivazione non cade neanche sull’opzione che ci si aspetterebbe in un Paese di milioni di piccole imprese autonome, solo all’11,6% degli italiani piacerebbe alzarsi prima per mandare avanti la bottega. Percentuale che sale di pochissimo presso i giovani, 15,6%.
    Non sono tantissimi nemmeno coloro che si alzerebbero prima dal letto per curare il loro benessere, appena il 23,5%. Il 45,6% trascorrerebbe il tempo che risparmia dal sonno per stare con le persone che ama. Potremmo dire allora che la principale motivazione in grado di scuotere gli italiani è la qualità delle relazioni umane (tab. 28).

    7. TRASGREDIRE

    Una società tralasciante è anche una società poco trasgressiva, perché nel “male” vale quello che vale nel “bene” o, forse, q il senso stesso del trasgredire che si è affievolito. Ad ogni modo, al di là di ogni considerazione oggettiva, gli italiani non si considerano o non si sentono “trasgressivi”, solo il 21,5% di essi ammette che gli capita spesso di fare cose che in teoria reputa sbagliate, mentre il 78,5% sostiene che non gli capita mai o quasi mai, ad un occhio esterno sembra un giudizio fin troppo “assolutorio”, ma evidentemente l’indifferenza, il non vedere influisce anche sulla capacità di autocritica (tab. 29).
    In modo più sfumato della singola azione “trasgressiva”, gli italiani mediamente conoscono il “senso di colpa”, almeno al 63,7%, più i giovani (70,1%) che gli anziani (59,3%), ma senza particolari differenze per quel che riguarda l’appartenenza religiosa (tab. 30). Si tratta di un sentimento più vago dell’autocritica, infatti se chiediamo a cosa collegano il loro senso di colpa, appena l’8,8% di loro lo lega a comportamenti trasgressivi rispetto, ad esempio, all’alcool o alla sessualità. Per la maggior parte degli italiani, 42,6%, il senso di colpa riguarda un atteggiamento egoistico nei confronti delle persone della cerchia stretta: famiglia o partner, e non i “bisognosi” per cui un atteggiamento di indifferenza suscita sensi di colpa solo nel 13,5% dei casi (tab. 31).

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