Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici
Capitolo quarto
LA RICONCILIAZIONE
La reintegrazione: il nuovo dialogo tra Dio e l'uomo
«La remissione dei peccati»
Secondo il racconto giovanneo che, a differenza dei Sinottici, tende a condensare in un unico evento la risurrezione, l'ascensione e la discesa dello Spirito Santo, così Gesù appare ai discepoli dopo essersi precedentemente mostrato a Maria di Magdala: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, non rimessi resteranno"» (Gv 20,19-23).
Stando al movimento della narrazione giovannea, apparendo ai discepoli, fondamento e immagine della comunità cristiana primitiva e di tutta la chiesa, Gesù fa un quadruplice annuncio.
Innanzitutto l'arrivo della pace: «Pace a voi!»: non la pace intesa secondo l'accezione moderna, come assenza di guerra, bensì la pace profetica come pienezza messianica e reinstaurazione del Regno di Dio dove il mondo si fa ordinato e felice, secondo la volontà creatrice.
In secondo luogo la missione o invio dei discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Ma inviati a fare che cosa? La risposta emerge, con evidenza, dal contesto precedente: inviati a realizzare la pace, a costruire il Regno di Dio, a instaurare il mondo buono dove si dispieghi per tutti la pienezza della vita.
In terzo luogo l'invio dello Spirito Santo: «Ricevete lo Spirito Santo»: cioè lo Spirito di Gesù, la sua stessa soggettività di un uomo nuovo, obbediente a Dio e servitore dei fratelli, in forza del quale ognuno può tornare ad essere altrettanto.
Infine la remissione dei peccati: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Ma in realtà più che di quattro messaggi si tratta di uno solo, essendo l'ultimo quello che guida ed esplicita gli altri. La pace, infatti, che Gesù annuncia e per la quale invia i discepoli e manda il suo Spirito coincide con la «remissione dei peccati». Questa, e solo questa, resta, per il Nuovo Testamento, l'unico senso della morte e della risurrezione di Gesù.
Qual è il sacramento che rimette i peccati?
Il primo evangelista, riportando l'ultima cena di Gesù, a proposito del calice, a differenza degli altri sinottici e dello stesso Paolo, precisa che esso «è il sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati». Questa precisazione più che un'ag giunta costituisce un'esplicitazione di tutto il racconto dell'istituzione eucaristica e prova a sufficienza come il sacramento per eccellenza della remissione dei peccati sia lo stesso sacramento dell'Eucaristia, di cui si è parlato nelle pagine precedenti. E poiché tutti i sacramenti vengono celebrati nel nome del «Signore Gesù morto e risorto», ne consegue che tutti i sacramenti, in un modo o nell'altro, sono sempre fonte di remissione dei peccati.
Ma nella tradizione cristiana, per motivi soprattutto pastorali, accanto al sacramento del Battesimo e dell'Eucaristia che «rimettono i peccati» (il primo quello originale e il secondo quelli quotidiani) si è preferito dispiegare in un sacramento a parte la «remissione dei peccati»: il sacramento della Penitenza o della Confessione oppure, con un termine più biblico, della Riconciliazione.
Si tratta di un sacramento che dagli inizi ad oggi ha subito cambiamenti a volte anche sostanziali, e che, nella forma attuale, chiamata «auricolare» (perché si celebra a tu per tu con il sacerdote, in luoghi chiamati, tradizionalmente, «confessionali», dove, per mantenere la segretezza, la comunicazione avviene parlando pian piano all'orecchio) risale al Concilio di Trento e al recente Concilio Ecumenico che ha cercato di rinnovarlo.
A parte, comunque, i cambiamenti che questo sacramento ha subìto (alcuni dei quali, come per esempio il tariffario fissato per la specie dei peccati, non privi di curiosità dal punto di vista del costume e della storia delle mentalità) e a parte il problema di come superare la crisi in atto che lo riguarda, una cosa è urgente più che mai: recuperarne il significato teologico autentico e l'intenzionalità che lo sottende, senza cui qualsiasi adattamento o ripensamento celebrativo si rivela, a lungo andare, insufficiente.
Il peccato: fallimento del mondo buono
Per capire in che senso il sacramento della riconciliazione «rimette il peccato», è necessario interrogarsi sul significato di quest'ultimo. Cosa si intende con un termine venerando come questo con il quale la tradizione biblica e la tradizione cristiana da millenni tramandano la loro peculiare visione del reale? E soprattutto: cosa intende la Bibbia con esso, al di là delle interpretazioni successive che, a volte, ne hanno offuscato il significato originario?
Un buon punto di partenza può essere dato dal significato etimologico del greco amartia, comunemente tradotto appunto con «peccato», e che, nella sua forma verbale (amartano), vuol dire fallire lo scopo, non mirare il bersaglio, non raggiungere l'obiettivo. Peccato, pertanto, è qualsiasi realtà la quale contraddice il suo fine e che, invece di realizzare ciò per cui è destinata, lo nega e si nega perdendo la sua identità. Un chicco di grano che invece di fiorire come spiga resta sottoterra a marcire o cresce solo parzialmente, fa «peccato», cioè non raggiunge la sua meta e pertanto si aliena.
Due sono le figure dominanti dove lo sguardo biblico coglie il peccato, cioè la realtà «bloccata», fermata, per riprendere l'immagine di Sartre, «a metà strada».
La prima riguarda il mondo che, concepito dalla Bibbia come buono, fatto per la felicità umana, di fatto quasi mai ha mantenuto e mantiene questa promessa, offrendo piuttosto l'immagine della sofferenza, dell'assurdo e del non-senso. Un mondo siffatto è, per la Bibbia, un mondo di peccato, un mondo che fallisce il suo scopo, non realizzando la felicità umana per la quale è stato pensato e voluto da Dio. Per descrivere questo mondo di peccato, cioè alienato, la Bibbia, soprattutto attraverso la voce dei profeti, fa riferimento alla immensa schiera dei malati e degli emarginati: sordi, zoppi, ciechi, epilettici, affamati, abbandonati, oppressi; mentre, per annunciare la fine di questo mondo alienato, parlerà della scomparsa di queste categorie di infelici:
«Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto...»
(Is 35,2-6; cf Mt 11,5).
La seconda figura riguarda l'uomo che, invece di amare e di servire il fratello, divenendone il custode, se ne fa rivale e nemico procurandogli la sofferenza e la morte. Se la punta estrema di questa figura di peccato, dove l'uomo si aliena perché tradisce la sua identità, è la morte data violentemente, come fa Caino nei confronti di Abele, la sua immagine più quotidiana, occulta e diffusa è l'ingiustizia: l'ignorare l'altro nella sua alterità e il ridurlo a strumento per la realizzazione dei propri progetti. È questa, per la Bibbia, la figura per eccellenza di peccato che testimonia del fallimento del mondo (luogo di dolore invece che di felicità) e del fallimento dell'uomo (soggetto produttore di violenza invece che di bontà).Ma oltre alla denuncia di queste due figure di peccato, cioè di alienazione e di fallimento, la Bibbia ne offre, contemporaneamente, un intreccio indissolubile e peculiare, presentando la prima come conseguenza della seconda e questa la radice di quella. Per essa infatti il fallimento del mondo, cioè il suo essere luogo di sofferenza invece che di felicità, non è intrinseco al mondo e neppure è fatto risalire, come nella grecità, a Dio, ma trova la sua radice prima e indeclinabile nel progetto umano che, fallendo - cioè peccando - per essersi fatto indifferenza e inimicizia invece che prossimità e sollecitudine, si trascina dietro nel suo fallimento anche il mondo. Questo fallimento, contrariamente alle apparenze, non inerisce alle strutture del mondo in quanto tale ma è, più propriamente, l'oggettivazione del fallimento del soggetto umano, lo spazio dove la sua alienazione, esternandosi e toccando il mondano, lo corrode e lo dissesta irreparabilmente.
Alla radice del peccato
Nella celebre favola di Esopo del lupo e dell'agnello che, spinti dalla sete, si avvicinano ad uno stesso fiume, si ricorderà l'assurda domanda del lupo che, cercando un pretesto per attaccare lite, accusa: «Perché, mentre stavo bevendo, mi hai intorbidito l'acqua?». Alla timida risposta dell'agnello che questo non poteva essere vero, trovandosi nella parte inferiore del fiume, il lupo, con un nuovo argomento che vuole più stringente, lo accusa di averne diffamato il nome sei mesi prima. «Ma come è possibile - si difese ancora il povero agnello - se non ero ancora nato?». «Allora sarà stato tuo padre», incalzò di nuovo il lupo, e, per non esser colto ulteriormente in fallo, si avventa sull'agnello e se lo mangia.
In questo lupo-animale, che è per Esopo l'immagine dell'uomo-lupo (dell'uomo che, rinunciando ad essere uomo, si autocostituisce come «lupo» e agisce come tale), si può cogliere oggettivata, quasi allo stato puro, la logica del peccato.
Stando al racconto, due sono i tratti inconfondibili che caratterizzano l'uomo-lupo, l'uomo fatto «peccato».
Il primo è quello della violenza. L'uomo che si fa «lupo» è l'uomo che si fa «violenza», che, di fronte all'altro, l'altro indifeso come un agnello, fa valere la sua forza, mettendolo a tacere e, se necessario, eliminandolo. Il peccato è autocostituirsi come soggetto violento, dotato del diritto della forza, sia quella fisica, verbale o razionale.
Ma a ben guardare il lupo-uomo di Esopo - che nel secolo XVII Thomas Hobbes, demitizzandolo, assumerà come la definizione stessa dell'umano, secondo la celebre definizione dell'homo homini lupus (l'uomo è lupo all'altro uomo) - a differenza del lupo-animale, non si caratterizza per il ricorso alla forza in quanto tale ma per il processo di giustificazione messo in atto per utilizzarla. Ora è proprio questo il secondo tratto, quello più rilevante, che definisce la sostanza del peccato, il quale più che nell'uso della violenza va ricercato nella sua «giustificazione». Il lupo-uomo della favola, infatti, non si limita a mangiare l'agnello, come avrebbe fatto il lupo-animale, ma tenta di «giustificarlo» con argomenti vari.
La «giustificazione» (dal latino iusti-ficare, «fare giusto») si riferisce a quel fare che «è giusto», a quel fare che non si iscrive nell'orizzonte del desiderio («perché mi piace»), né della volontà di potenza («perché lo voglio»), ma in quello del giusto, dove le cose sono sottratte all'io e poste sotto l'istanza della trascendenza e del diritto.
Il lupo-uomo della favola «giustifica», ma senza riuscirci, la sua forza, vuole cioè sottrarla alla sua dimensione di bruta fattualità («Ti mangio perché sono più forte di te») per inserirla in quella del diritto («È giusto che io ti mangi perché tu mi hai fatto un torto»).
La sostanza del peccato e la sua potenza generatrice di violenza è tutta qui: nella transustanziazione del soggetto umano in soggetto di diritto che invece di servirlo se ne serve: «Credo che si capisca poco più di nulla della violenza umana se non si penetra in questo suo fondo segreto e avvelenato. Le ragioni dell'interesse, pur consistenti e micidiali, non hanno il coraggio di esporsi (perché non hanno la forza di imporsi) da sole; devono ricorrere a un ordine di ragioni "superiori", alla costruzione dell'immagine dell'altro come nemico: come offensore o come minaccia. E questo si verifica sia nello spazio dei rapporti più privati e intimi che nell'ambito delle relazioni pubbliche: tra classi, tra Stati, tra culture. Il cuore violento è onnipresente, come Dio, perché è l'antidio».[1]
È possibile liberarsi dal peccato?
A. J. Heschel riporta la seguente parabola di Rabbi Nachman di Kossou:
«Ad una cicogna che era caduta nel fango e non riusciva più a liberare le zampe venne un'idea: non poteva utilizzare il suo lungo becco? Così ficcò il becco nel fango e, appoggiandosi tutta su di esso, riuscì a tirare fuori le zampe. Ma a che serviva? Le zampe erano fuori, ma il becco era rimasto conficcato. Allora la cicogna ebbe un'altra idea: conficcò le zampe nel fango e tirò fuori il becco. Ma a che serviva? Ora le gambe erano conficcate nel fango...».[2]
Questa cicogna, impossibilitata a liberarsi dal fango perché qualsiasi mossa per uscirne non fa che riprecipitarcela, è l'immagine eloquente, per la letteratura biblica soprattutto neotestamentaria, dell'incapacità dell'uomo di vincere il male con le sue sole forze.
Il motivo di questa impossibilità, ontologica e logica, va proprio ricercata, nella Bibbia, nella natura peculiare del peccato che, più che «oggetto» di visione e di conoscenza, è l'oggettivazione dell'«io» autocostituitosi soggetto di diritto e, pertanto, soggetto «giusto». Se il peccato avesse lo statuto di «oggetto» di fronte all'io, esso, come ogni oggetto, potrebbe essere colto, definito e, eventualmente, «aggredito» e vinto; come, ad esempio, un'infezione o un tumore; ma là dove esso, come vuole il testo neo- testamentario, è l'oggettivazione dell'io, questi, lungi dal «fissarlo» e «giudicarlo», ne è dentro irrimediabilmente, come l'occhio daltonico per il quale il colore distorto registrato non è un oggetto che può essere visto e giudicato ma l'estrinsecarsi stesso dell'occhio intrinsecamente malato.
Il lupo-uomo della parabola di Esopo non può lottare contro il male e pertanto liberarsene, per un motivo tragicamente paradossale: perché una volta che lo ha «giustificato», immettendolo nell'orizzonte del «giusto» («Ti uccido perché mi hai offeso, non perché io sono cattivo»), esso non esiste più come male, essendo stato transustanziato in bene e, appunto perché non esiste, neppure può essere riconosciuto ed, eventualmente, «aggredito» e vinto.
La situazione dell'uomo peccatore è, pertanto, per la letteratura neotestamentaria, tragicamente disperata, simile a quella di un ubriaco incapace, appunto perché ubriaco, di riconoscersi tale o a quella di un malato di cancro che, ignaro della sua realtà, è nella impossibilità oggettiva di curarlo. Una lettura come questa, che con la sua crudezza mette in crisi l'ottimismo ingenuo degli umanesimi facili per i quali il male del mondo è un'appendice irrilevante, più che da una visione pessimistica della natura umana nasce dall'osservazione disincantata della condizione umana alle prese da sempre con una violenza radicale e strutturale, come hanno messo in luce filosofi come I. Kant, k. Jaspers, R. Bultmann, P. Ricoeur e, recentemente, l'antropologo culturale R. Girard, per il quale, secondo i suoi studi condotti sulle società umane, l'atto fondatore che le costituisce è la violenza omicida ritualizzata. Forse nessun secolo come il nostro, testimone di Hiroshima e di Auschwitz, i due vertici impensati della follia omicida umana, è costretto a confrontarsi con lo spessore inquietante e tenebroso delle potenze del male.
Solo Dio può rimettere i peccati
Narra Marco che un giorno, a Cafarnao, la piccola città sul mare, si verificò un episodio strano: «Si seppe che [Gesù] era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuore loro: "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?". Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: "Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto nulla di simile"» (Mc 2,1.12).
Se l'uomo non può liberarsi da solo dal peccato (essendo incapace di prenderne perfino coscienza!) non per questo, però, la sua situazione resta disperata, essendoci Dio che, di fatto, interviene e lo salva.
Dio, per la Bibbia, è Dio proprio perché ha il potere di «rimettere i peccati», cioè di infrangere la falsa coscienza entro la quale il soggetto peccatore si è murato, mettendola in crisi (si ripensi al celebre tema giovanneo della krisis in cui il quarto evangelista condensa tutto il significato della venuta di Cristo) e riportandola alla verità di soggetto dell'alleanza, obbediente a Dio e servitore dell'altro.
Il Nuovo Testamento, dalla prima all'ultima delle sue pagine, è l'inesprimibile inno di gioia suscitato dall'identità ritrovata, è l'«evangelo» - letteralmente: «bella» o «buona» «notizia» - paragonabile a quella di chi, stando in carcere, sente che gli viene annunciato: «Tu sei stato liberato, da oggi puoi tornare a casa». L'«evangelo di Dio» (di cui i quattro vangeli e i restanti libri neotestamentari sono l'oggettivazione letteraria e che Paolo, nella lettera ai Romani, si sente, per vocazione, «prescelto ad annunciare» [Rm 1,1]) è solo questo: l'evento della liberazione dal male che, per il soggetto, è l'evento della sua stessa ri-creazione.
Si sarà destinati a restare per sempre alla superficie del dato neotestamentario se, al centro della propria precomprensione e della propria ermeneutica, non si mette questa esperienza radicale di ricreazione o di «rinascita» con cui si passa dalla schiavitù del male alla libertà per il bene, dalla impotenza ad amare di amore di alterità alla ritrovata capacità di farlo.
Il perdono di Dio
Se Dio «rimette i peccati», liberando il soggetto e ricreandolo, il perdono è la modalità con cui egli, di fatto, opera questo miracolo. Per questo il Nuovo Testamento è, fondamentalmente, l'annuncio del perdono di Dio, del Dio che, nelle «vesti» di Gesù, si siede a mensa e mangia con i peccatori, secondo la comune testimonianza evangelica: «Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?". Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori"» (Mt 9,10-13; cf Mc 2,15-17; Lc 5,29-32).
Ma, per il Nuovo Testamento, il luogo rivelativo per eccellenza del perdono divino più che le parole di Gesù (si ricordino, tra le altre, le parabole lucane tra le quali quella nota, anche se impropriamente, come «il figliol prodigo») è la sua morte in croce in obbedienza a Dio e per amore ai fratelli.
Di fronte a quanti ingiustamente lo scherniscono e lo uccidono esercitando nei suoi confronti - lui «il Santo», «l'Agnello Immacolato», «l'Innocente» - la suprema violenza omicida, Gesù non risponde all'odio con l'odio ma con l'amore; non dice: «Vi rifiuto» ma: «Vi amo»; non si fa estraneità (estraneità all'altro che, con la sua violenza, si è fatto estraneità radicale) ma suprema compagnia e vicinanza.
E nel comportarsi così Gesù non fa un gesto di autoaffermazione ma di rivelazione, non manifesta qualcosa di suo ma qualcosa che è solo del Padre e può essere solo del Padre del cui volere si è sempre nutrito: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). L'evento della morte di Gesù, l'evento di quello che avviene nella coscienza del Crocifisso, è tutto qui: l'apparire di una compagnia, quella stessa divina, che non abbandona anche se abbandonata e alla quale nessuna estraneità, neppure quella dell'omicida che le si erge contro, rimane estranea.
Questo evento, l'evento di una compagnia intrascendibile che nessun rifiuto e nessuna violenza possono annullare, ha preso il nome, nella tradizione cristiana, di perdono, dal latino per-donum, che mette in luce la dimensione di dono (donum) al superlativo (per). Se tutto è dono di Dio: la creazione stupenda dell'uomo e della donna e dei beni del mondo per farli felici, ancor più lo è il suo amore per l'uomo «peccatore», costituitosi violento, con cui lo ri-crea e gli ridona il mondo.
La potenza del perdono divino
Si è soliti pensare, soprattutto dopo e a causa di Nietzsche che a proposito ha avuto parole molto dure, che il perdono sia sinonimo di passività e di viltà e, equivoco ancora più grave, che esso lasci le cose come stanno, abbandonandole alla logica del più forte. «Se Dio mi perdona sempre e dovunque, allora tanto vale la pena che io continui a peccare»: non è questa un'obiezione abbastanza ricorrente?
Eppure per la Bibbia il perdono di Dio, lungi dall'essere un atteggiamento remissivo che lascia le cose come stanno - il cattivo cattivo e l'ingiustizia ingiustizia - è l'unica potenza capace di trasformare il cuore violento e l'ingiustizia che da esso viene generata: «Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,16-17).
L'evento del perdono è, per la letteratura neotestamentaria, «la potenza di Dio», che dischiude «la salvezza a chiunque crede».
Ma in cosa consiste la potenza (dynamis) di questo perdono che fa dono della salvezza?
La risposta a questa domanda è che, per il Nuovo Testamento, la «potenza del perdono», per quanto paradossale, risiede proprio nella sua stessa «impotenza», dalla quale si sprigiona una «potenza», altra da quella della violenza. Cosa c'è di più impotente di un crocifisso che invece di rispondere alla violenza con la violenza preferisce subirla personalmente? Cosa c'è di più indifeso di uno sguardo che, rivolto al proprio persecutore, invece che odio e rifiuto gli comunica interessamento e accoglienza? Ora è proprio in questa impotenza (l'impotenza del perdono!) che si dischiude quella «potenza», l'unica capace di aprire una breccia nel soggetto violento o, per riprendere l'immagine della parabola di Esopo, nel lupo-uomo. «Scontrandosi» con un amore che continua ad essergli donato proprio nel momento in cui da lui viene negato, il soggetto violento scopre che la sua violenza non appartiene all'ordine del determinismo e della necessità ma a quello della scelta e dell'evento e che quindi può essere sconfitta. Di fronte ad esso il soggetto violento «vede» la sua violenza per quello che veramente è: non l'espressione di una legge di natura (homo homini lupus) ma il disfacimento di una libertà negatasi; non il dispiegamento di un principio universale ma il prodotto della libertà personale mancata. E, di conseguenza, di fronte ad esso e grazie ad esso, il cuore violento accede alla sua verità, si guarda, per la prima volta, oltre i veli della naturalità e della legittimazione e apre gli occhi sulla sua realtà di alienato, lontano e privo di dignità e autenticità.
La potenza del perdono è in questa negazione radicale della violenza dell'io che si è costituito «lupo», cioè soggetto di diritto; negazione radicale perché non si costituisce, come nella contrapposizione, sul piano del riconoscimento (contrapporsi è riconoscere l'altro come antagonista!), ma su quello del disconoscimento: «non esisti e, quindi, ti ignoro come soggetto violento».
Ma il perdono, se fa prendere coscienza del proprio abisso di iniquità, non è per chiudere il soggetto nella disperazione o nell'autocommiserazione («Guarda come ti sei ridotto!»), ma per farlo rinascere alla sua verità che è quella di essere soggetto di alleanza, capace di con-creare con Dio il mondo buono e felice. È qui che il perdono dispiega tutta la sua verità, come potenza ricreatrice del soggetto umano e ricostitutrice del mondo secondo Dio. Grazie ad esso l'uomo può riprendere daccapo il dialogo con Dio interrotto col peccato e tornare ad essere suo partner, nell'obbedienza e nella responsabilità fraterna.
Il pentimento
Nella pratica pastorale invalsa fino al Vaticano II, i sacerdoti e i libri spirituali amavano ricondurre a cinque le condizioni principali in vista di una «corretta» celebrazione del sacramento della penitenza o riconciliazione: esame di coscienza, pentimento, confessione, assoluzione e penitenza.
Tra questi elementi, in realtà, il più importante è «il pentimento», inteso non tanto nella sua accezione psico-affettiva ma in quella, più profonda e fon- dativa di ogni altra, fenomenologica e teologica.
Cos'è il pentimento ad una rapida riflessione fenomenologica attenta a cogliere il vissuto di «chi si pente», cioè del «pentito»?
Chi dice: «Sono pentito», «Mi pento» testimonia, innanzitutto, di un nuovo ordine di sapere, un sapere che non riguarda l'universale («So chi è l'uomo») e neppure gli altri («Conosco meglio chi è il mio vicino di casa») ma il proprio io nella sua irriducibile e indeclinabile singolarità; un sapere, pertanto, che è un sapersi: un sapere di sé e della propria realtà, del proprio nome e della propria verità.
Chi non ricorda la celebre parabola del «buon samaritano» che si ferma e si prende cura del povero malcapitato incrociato sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, a differenza del levita e del sacerdote che continuano per la loro strada perché convinti di avere cose più importanti da fare?
Abbandonandoci all'immaginazione ricreatrice, supponiamo che il samaritano non si fosse fermato e che il sacerdote, il giorno successivo, ripassando per quella strada o leggendo «il giornale», fosse venuto a sapere che quel disgraziato era morto non essendoci stato nessuno a fermarsi e all'improvviso, per la prima volta, balenasse nella sua mente e invadesse la sua coscienza, prima fugacemente e poi sempre più persistentemente, questa idea o convinzione: «È morto per causa mia, avrei dovuto fermarmi e non mi sono fermato, che carogna sono stato!».
Il pentimento è il dischiudersi di questa nuova coscienza dove il peccatore si scopre nella sua realtà di peccato («che carogna sono stato!») e accede alla sua verità («Avrei dovuto fermarmi e non mi sono fermato»).
Se ci si chiedesse come entro la vecchia coscienza fosse potuta accendersi questa nuova coscienza mettendola in crisi e scardinandola, sarebbe illusorio, per il Nuovo Testamento, ricercare la risposta entro lo stesso soggetto che, invece di pentirsi, avrebbe potuto rallegrarsi della morte del malcapitato; la risposta invece va ricercata proprio nel perdono di Dio, nel suo atto di amore con il quale, invece di lasciare il peccatore a se stesso («Sono andato oltre il malcapitato ignorandolo e rendendomi responsabile della sua morte»), torna a parlargli attraverso il suo peccato («Guarda cosa hai fatto!»), aprendo una breccia nella sua coscienza di soggetto violento.
Ma manca ancora l'elemento più importante per cogliere fino in fondo il sapere, che è un sapersi, dischiuso dal pentimento: la sua potenza ricreatrice dell'amore mancato e della vita non data. Il pentimento, a differenza del rimorso, mentre denuncia il soggetto nella sua autochiusura irresponsabile («Che carogna sono stato!») e nella sua verità mancata («Mi sarei dovuto fermare e non mi sono fermato») gli dischiude la sua nuova possibilità («Da oggi in poi mi fermerò»). Il pentimento, contrariamente a quanto troppo frettolosamente si pensa, non fissa il soggetto al suo passato di peccato ma, nel mondo di peccato, è l'unico principio che, liberandolo da esso, lo riapre al futuro.
Cos'è il sacramento della riconciliazione?
Nella prospettiva pastorale e catechetica si presenta, e dal punto di vista pedagogico forse giustamente, il perdono di Dio come conseguente all'assoluzione del sacerdote e questa, a sua volta, al riconoscimento del proprio peccato da parte del penitente. Quindi: si è perdonati perché si è stati assolti e si è stati assolti perché, confessandosi, si è riconosciuto il peccato.
Il discorso fatto in queste pagine, un discorso che si è voluto teologico e non pastorale, mostra in realtà un itinerario che è l'esatto contrario: è il perdono di Dio che dischiude al peccatore la coscienza del peccato di cui il riconoscimento, cioè la confessione nel senso originario di proclamazione pubblica, è la traduzione consequenziale. Ma allora c'è forse contraddizione tra la prospettiva pastorale e il discorso teologico?
La risposta all'interrogativo va cercata nella corretta interpretazione del sacramento il cui statuto, come si è notato nell'introduzione, è quello di essere parola, cioè segno. Il sacramento della riconciliazione, pertanto, non è il perdono di Dio ma il segno del suo perdono, la sua traduzione e il suo dispiegamento in linguaggio simbolico e rituale. Quel perdono (che è l'evento dell'amore di Dio che, «scontrandosi» con l'uomo peccatore, lo «condanna» e lo «grazia» ridischiudendogli la sua vocazione originaria di uomo dell'alleanza) trova la sua figura pubblica ed ecclesialmente articolata nel sacramento della riconciliazione: dove la presenza del sacerdote e il confessionale dicono, con il loro semplice esserci, che il perdono di Dio è un «già dato», dono del suo amore e non della ricerca umana e dove il penitente che vi si reca è esso stesso «parola» che, con il suo gesto, annuncia che quel perdono per ciascuno può divenire potenza di rigenerazione e di vita nuova.
NOTE
[1] A. Rizzi, Teologia della liberazione per l'Occidente, in "Rassegna di Teologia" 29 (1988), p. 67.
[2] A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo. Una filosofia dell'ebraismo, Borla, Torino 1969, p. 348.