Educare le emozioni /6
Raffaele Mantegazza
(NPG 2009-07-44)
Quando domani ci accorgeremo
che non ritorna mai più niente,
ma finalmente accetteremo il fatto come una vittoria...
(Francesco de Gregori, Viaggi e miraggi)
C’è nostalgia perché c’è il tempo; il che significa fondamentalmente che c’è nostalgia perché c’è la morte; in termini educativi, c’è nostalgia perché si cresce e si abbandonano i territori dell’infanzia e dell’adolescenza per avventurarsi nel mare aperto dell’età adulta, e ciò significa morire alla propria infanzia: ogni oggetto, ogni profumo, ogni brano musicale che ci susciti nostalgia rimanda a un passato per sempre perduto: «La musica di Mahler persiste nell’utopia per mezzo delle tracce mnestiche della fanciullezza, e sembra che solo per loro valga la pena di vivere».[1]
Così la nostalgia è un male dell’anima in crescita, anzi è forse l’unica garanzia che il processo di crescita stia davvero proseguendo, con le sue gioie e i suoi dolori: chi non prova mai nostalgia probabilmente non è mai morto, dunque non è mai cresciuto; è incollato a un passato che scambia per presente e, non avendo la forza di ricordarlo nostalgicamente, dimostra di non saperlo superare. Solo chi sa gustare la sera presente – questa sera – come qualitativamente differente da quelle del passato è in grado di averne nostalgia:
Mi cantano Dormi!
Sussurrano Dormi!
Bisbigliano Dormi!
Là voci di tenebra azzurra
Mi sembrano canti di culla
Che fanno ch’io torni com’era
Sentivo mia madre, poi nulla
Sul far della sera.[2]
Secondo la straordinaria intuizione di Jorge Luis Borges, allora, anche Gesù in croce provò questo sentimento rispetto alle lunghe e irripetibili giornate della sua infanzia:
Ricordo a volte, e ho nostalgia
l’odore di quella bottega di falegname.[3]
È vero che l’infanzia ricordata è spesso depurata dalle tracce delle violenze subìte, dunque immersa in una cortina mitica che la fa ricordare come tempo beato; ma è anche vero che è possibile provare nostalgia di una infanzia più realistica, di un tempo impastato di violenze e speranze, di umiliazioni e proiezioni verso il futuro: basta un oggetto per risvegliare nella memoria il tradimento adulto rispetto ai sogni dell’infanzia ma al contempo anche la forza insopprimibile di questi sogni:
Sfogliando un vecchio Topolino
mi ricordo quando da bambino
sentivo un uomo parlare
e io attento a sentire
«Diventa grande e te ne accorgerai»
diceva
Poi con le mani nelle tasche vuote
se ne andava via
da quell’unica stanza gialla di periferia.[4]
Così la nostalgia è sentimento di fuga; ricorda un passato non solo da mitizzare ma anche da fuggire, un passato dal quale si è comunque usciti e perciò lo su può contemplare con relativa serenità:
Non so più il sapore che ha
quella speranza che sentivo nascere in me
non so più se mi manca di più
quella carezza della sera
o quella voglia di avventura
voglia di andare via di là.[5]
Nostalgia proiezione nel futuro
La nostalgia non è allora prigioniera del passato, ma al contrario una proiezione nel futuro, quello che Ernst Bloch definirebbe un sentimento di anticipazione: un viaggio verso un futuro possibile, verso ciò che non è stato ma potrebbe essere stato (o forse ancora potrebbe essere), una riflessione sul possibile sblocco di un destino che potrebbe anche cambiare in meglio: la nostalgia è sentimento del «già» ma anche del «non ancora», del «(finora) mai»:
La cantina era quasi vuota,
scarsa d’uomini e d’allegria:
se straniero l’avresti detta quasi piena
di nostalgia.
Nostalgia ma di che cosa,
d’un oceano mai guardato,
di un’Europa mai sentita,
d’un linguaggio mai parlato?[6]
Ovviamente l’autore che ci ha offerto la riflessione più compiuta sull’infanzia come regno della nostalgia e del ricordo involontario è Marcel Proust, che in visita alla zia a Combray assaggia la madeleine intinta nel tè e viene assalito alle spalle dal peso del passato:
«... E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che appena immersi si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, casi, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e di quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè».[7]
Si tratta di una nostalgia che assale alle spalle l’adulto nel momento in cui questo/a meno se lo aspetta: nostalgia di una infanzia che si colora dei toni della rimemorazione non consapevole e che proprio per questo merita il nome di infanzia ricordata. Non si ricorda l’infanzia pescando nel magazzino delle memorie per scopi utilitaristici o ricreativi, per raddrizzare una giornata storta o per rendere maggiormente sul lavoro; in Proust l’infanzia ricordata è contemporaneamente infanzia che ricorda, soggetto-oggetto dell’attività rimemorante; una infanzia che ci prende alle spalle, un bambino che ci chiama dietro ogni angolo e dentro ogni tazza di tè. Dopo Proust è difficile pensare di poter davvero rimemorare la propria infanzia come si ricorda una data o il luogo in cui si è riposto un oggetto; dopo la Recherche dovrebbe essere chiaro che dietro ogni uomo che ricorda il proprio essere stato bambino c’è forse un bambino che sogna di diventare uomo: due nostalgie che si sfiorano e si abbracciano.
Proprio per questo vivere in una terra di mezzo la nostalgia è sentimento adolescente. L’irrimediabile esperienza del non essere più bambini scuote l’adolescente; la prova di realtà che il modo gli provvede, le richieste adulte di «essere adulto», «comportarsi da grande», gratificano il fanciullo e la fanciulla e al tempo stesso fanno loro rimpiangere con forza il tempo in cui essi erano al centro dell’attenzione e della cura adulte, dimensioni gratuite di un dispositivo educativo quasi automatico.
È solo attraverso la nostalgia per le terre dell’infanzia definitivamente abbandonate, per le promesse di piacere sperimentate in quelle terre, che è possibile elaborare la paura in speranza e stingere la solitudine nella fiducia nel prossimo, amicizia o amore che sia. Il vincolo che mi lega all’altro da me, la possibilità che l’altro non sia un nemico il cui colpo schivare ma un possibile alleato nell’avventura della crescita, risiede in quel senso di sconfinata fiducia che da bambini si provava nei genitori o nelle figure educative; senso di fiducia che non può più essere gustato in pieno, ma che può essere ricordato con gratitudine. Qui la nostalgia incrocia la dimensione della memoria; se non può più essere bambino/a l’adolescente può però ricordare la propria infanzia, anche rimpiangerla e colorarla delle tinte del mito
Per gli adulti è allora il ricordo, intriso di nostalgia, del bambino o della bambina che il ragazzo o la ragazza sono stati, a servire da strumento di elaborazione del lutto per la perdita dell’identità infantile; lo «strappo» tra infanzia ed età adulta sarebbe troppo forte, troppo traumatico se non si serbasse il ricordo dell’infanzia come terra in cui rifugiarsi nelle necessarie e benefiche regressioni di cui non solo l’adolescente ha necessità; un altro strappo lacerante e un’altra dimensione della nostalgia incrociano qui i vissuti dell’adolescente: il trauma della nascita e la nostalgia dell’ovattato mondo amniotico. Si tratta di lacerazioni che non possono mai essere sanate del tutto; ma se l’adolescenza è una seconda nascita, una nascita sociale, è allora chiaro che anche qui la dimensione del trauma e della perdita saranno fortemente messe in gioco, e che occorrerà uno sguardo nostalgico al passato (un passato «sufficientemente buono»; perché di quale infanzia dovrebbero mai avere nostalgia i bambini lavoratori delle favelas latinoamericane o delle città del Sud sfregiate dalla mafia?) che bonifichi il presente dalle dimensioni di rischio e di attacco al fragile Sé che si sta costituendo.
Nostalgia e utopia
Certo, c’è il rischio che la nostalgia, resa «nostalgia cosmica», si trasformi in rassegnazione, in melancolia, in chiusura nei confronti della dimensione del tempo e della crescita, in rifiuto del futuro; ma pensiamo che peggiore sia il rischio del pragmatismo a tutti i costi che vuole farla finita con il passato (e si allea segretamente con le ideologie che il passato vorrebbero uccidere) unicamente per idolatrare un cattivo presente; occorrerà allora non solo legittimare la nostalgia adolescenziale per l’infanzia (quante volte tale nostalgia si è trasformata in sentimento di cura per l’infanzia presente, nutrendo vite e carriere di educatori ed educatrici!), ma anche mostrare ai ragazzi e alle ragazze che occorre avere «nostalgia del futuro»; dimensione in cui la nostalgia incrocia le linee dell’Utopia, il ricordo di mondi passati sfiora il sogno di universi futuri, l’amore per ciò che è stato si muta in cifra di ciò che potrebbe essere.
Chiudiamo con una notazione sul Piccolo Principe,[8] testo che ovviamente meriterebbe una analisi di parecchie pagine; ci soffermiamo solamente sullo straziante finale, in realtà anticipato dall’addio della volpe al Piccolo Principe; l’animale, nel salutare piangendo l’amico che lo ha addomesticato, dice che ci guadagna «il colore del grano», ovvero il colore biondo dei capelli del bambino; il Piccolo Principe sceglierà consapevolmente (ma aiutato in qualche modo dall’adulto) di morire alla propria infanzia, di scomparire assumendo un’altra identità («sembrerà che sia morto ma non è così»);[9] stavolta l’infanzia muore perché la sua morte è l’unico viatico per una vita adulta; nel diventare grandi si è ineluttabilmente soli di fronte al terribile compito della crescita («lasciami fare un passo da solo»)[10] ma vale la pena di morire alla propria infanzia se nel ricordo, nella fedeltà, nella responsabilità nei confronti di altri («Io sono responsabile della mia rosa»)[11] si scopre la struggente dolcezza del lavoro educativo.
Val la pena di non essere più bambini e bambine, se si può in questo modo, da adulti, aiutare altri ad esserlo fino in fondo, con gioia e serenità; «cadde dolcemente come cade un albero»,[12] come una cosa naturale, senza violenza e senza ingiustizia; e il romanzo si chiude sulle parole che ogni educatore o educatrice sente risuonare dentro, quando l’ultimo dei suoi allievi se ne è andato per il mondo: «per favore, ditemi che è tornato».[13] Che è tornato l’allievo, ma che è tornata anche la nostra infanzia: inverata in una età adulta che non ha più bisogno di provare nostalgia perché sperimenta nel presente la gioia di vivere che troppo spesso proiettiamo all’indietro senza connetterla – come dovrebbe essere – al compito di costruire un gioioso futuro per tutti e per tutte.
ATTIVITÀ
Come diciamo addio a ciò che se ne va? Come facciamo ad elaborare la perdita di qualcosa e di qualcuno? Come facciamo i conti con la malinconia che è presente in ogni addio? Le seguenti attività entrano nello specifico di un momento di chiusura e di fine di qualcosa e della nostalgia che questo momento può lasciare nelle coscienze di chi lo sta vivendo.
1. L’ultimo giorno
In gruppo, recitare le seguenti situazioni di «prima volta» prestando molta attenzione alle dimensioni della gestione dello spazio, del tempo, dei corpi, della voce ecc.:
L’ultimo esame di uno studente di ingegneria.
L’esame di laurea dello stesso.
Le dimissioni di una donna ricoverata per accertamenti nel reparto medicina di un grande ospedale.
L’ultimo giorno di permanenza di un ragazzo in una compagnia di discotecari che ha deciso di abbandonare.
L’ultimo giorno di lavoro di un commesso nel reparto elettrodomestici di un centro commerciale, prima del pensionamento.
L’ultimo giorno di lavoro di un commesso nel reparto elettrodomestici di un centro commerciale, prima di passare a un altro lavoro in un’altra azienda.
La scarcerazione di un detenuto in carcere della periferia di Los Angeles.
I momenti che seguono la finale di campionato nello spogliatoio di una squadra di calcio di ragazzi di 15 anni (in caso di vittoria e in caso di sconfitta).
2. Il gioco degli addii
Si recitino in coppia o in gruppo le seguenti situazioni di addio:
– un ragazzo lascia la sua ragazza (o viceversa) perché si è innamorato di un’altra;
– un ragazzo lascia la sua ragazza (o viceversa) perché ha scoperto di essere tradito;
– un ragazzo lascia la sua ragazza (o viceversa) perché deve trasferirsi lontano per lavoro;
– uno studente di liceo abbandona gli studi;
– uno studente universitario abbandona gli studi;
– un ragazzo/a di 16 anni che se ne va dalla casa dei genitori;
– un/a giovane di 30 anni che se ne va dalla casa dei genitori;
– la fine di un percorso formativo narrata da un educando;
– la fine di un percorso formativo narrata da un educatore.
3. Fare le valigie
Questa attività mette a tema la nostalgia che ci prende alla fine di un processo formativo (corso scolastico, catechismo, anno sportivo, ecc.).
Che cosa portiamo con noi? Quanto l’identità supplementare che l’educazione ci provvede ci può servire per nuove avventure e nuovi percorsi? Cerchiamo di «fare le valigie» chiedendo ai ragazzi, alla fine di un percorso, che cosa hanno messo in valigia quanto ad apprendimenti, valori, competenze ecc. Occorre che le valigie siano materiali, non metaforiche, dunque che i ragazzi e le ragazze portino da casa oggetti simbolici che rappresentino quanto resta loro del percorso fatto, e mostrino gli oggetti agli altri. E infine una riflessione: è proprio necessario che tutto ciò che si apprende in un progetto formativo, tutto ciò che si mette in valigia l’ultimo giorno, sia immediatamente spendibile «fuori»? Gli oggetti che rimangono dimenticati sul fondo della valigia non hanno un loro fascino, una loro poesia, una loro utilità che sfugge al pensiero utilitaristico? Non sono fortemente formativi proprio perché apparentemente non servono a nulla?
[1] Theodor W. Adorno, Wagner. Mahler, Torino, Einaudi, 1975, pag. 127.
[2] Giovanni Pascoli, La mia sera.
[3] Jorge Luis Borges Elogio dell’ombra ora in Tutte le opere vol. II, Milano, A. Mondadori, 1986 pp. 1472.
[4] PFM, Topolino.
[5] New Trolls, Quella carezza della sera.
[6] Francesco Guccini, Antenòr, dall’album Metropolis (1980).
[7] Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, Milano Einaudi, 2000, pag. 55.
[8] De Saint-Exupéry, Antoine, Il Piccolo Principe, Milano, Bompiani, 1984.
[9] Ivi, pagg. 116/117.
[10] Ivi, pag. 118..
[11] Ivi, pag. 98.
[12] Ivi, pag. 118.
[13] Ivi, pag. 125.