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     La critica del

    pensiero calcolante

    Umberto Galimberti

    Il titolo che mi è stato assegnato è LA CRITICA DEL PENSIERO CALCOLANTE.
    Per iniziare, è una frase che non è mia, pensiero calcolante, è di Heidegger, il quale a più riprese individua nel pensiero occidentale questa tendenza al calcolo e questa riduzione di tutto il pensiero alla calcolabilità. Sappiamo fare solo di conto, noi, e quindi visualizzare il mondo sotto il profilo dell’utile, e lo scenario dove questa categoria è egemone – al punto che ormai non sappiamo più cosa è bello, cosa è brutto, che cosa è vero, che cosa è santo, perché capiamo subito cosa è utile per effetto della qualità del pensiero di cui oggi disponiamo - esce come espressione riferita alla tecnica, che senz’altro è la forma più alta di questo pensiero calcolante, Heidegger dice che ciò che è che è inquietante è non tanto che il mondo si riduce a questo enorme apparato tecnico, molto più inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicala trasformazione del mondo. Ma ancora più inquietante è che non disponiamo più di un pensiero alternativa al pensiero capace solo di calcolare. In tedesco Heidegger dice: Denken als Rechnen, il pensiero come calcolo. Dunque, che dire? Che la ragione calcolante nasce proprio in ambito economico e più precisamente nasce come regolatrice degli scambi, in quello che tutti quanti utilizziamo come espressone abituale: redde rationem. Il che vuol dire che io ti do una cosa e tu mi dai l’equivalente o in natura o in denaro.
    Questo redde rationem viene inaugurato nel mondo antico, ma non era l’origine del rapporto economico. Prima di questa relazione di equivalenza tra quello che do e quello che ricevi, questa ratio (dunque la parola ragione nasce in ambito economico), c’era quello che gli antropologi a partire da Marcel Mauss a Levy Strauss e Levy Bruhl segnalano come scambio simbolico.
    Scambio simbolico era una sorta di economia, dove il potere non consisteva tanto nella disponibilità delle cose, quanto nella capacità o di sprecarle o di donarle sfidando l’avversario. Io come capo tribù o come capo clan o capo di un popolo chiamo di fronte a me il mio antagonista; di fronte a lui o faccio un’operazione distruttiva (distruggo 10 vascelli, ammazzo 50 schiavi) e l’altro è costretto a restituire questo mio gesto con un surplus in maniera tale da determinare chi è il più forte, o in questa forma distruttiva o in questa forma munifica: io ti dono (ecco, la figura del dono è una figura molto importante): io ti dono ricchezze veramente impressionanti e tu devi essere in grado di mostrare di potermene restituire a misura o di più. Se non sei in grado diventi tu e tutta la tua tribù a mio servizio. Quindi in questo tipo di scambio cosiddetto simbolico le merci sono solo occasioni di sfide soggettive. Questi processi vengono chiamati dagli antropologi potlach, spreco incondizionato, ripeto, o nella forma della distruzione o nella forma del dono, cosa che peraltro è rimasto nell’inconscio di ciascuno di noi, quando uno ci fa un regalo.. sì, grazie, sono contento… però sotto c’è anche la sensazione di essere un po’ sfidati dal dono, e di conseguenza facciamo un controdono per equiparare immediatamente gli scambi. Ecco, questa dimensione viene oltrepassata con l’avvento del redde rationem, che segnala che in gioco non ci sono più le soggettività degli uomini, ma semplicemente il valore delle cose che si scambiano. La ragione espelle la soggettività e valuta in modo razionale, sulla base di equivalenze, il valore delle cose.
    A questo si perviene prima che nascesse una economia di scambio, regolata dal valore di scambio e non più dallo scambio simbolico: nasce addirittura col pensiero occidentale, perché il pensiero occidentale, che si inaugura con la filosofia, è caratterizzata da due figure essenziali: primo, non fidarti mai della certezza sensibile; secondo, non introdurre mai la tua soggettività nel ragionamento.
    Questo vuol dire che – Platone lo dice molto chiaramente – non possiamo costruire un sapere se facciamo riferimento alle sensazioni corporee: perché il corpo si trasforma, si ammala, muta, cresce, invecchia, e se dovessimo costruire un sapere sul corpo, evidentemente non perverremmo a un sapere universale. Ecco: il disprezzo del corpo di Platone non è tanto all’interno di uno scenario religioso o ascetico, è perché il corpo non dà fondamento di verità, i sensi non garantiscono un sapere universale. Quindi eliminazione dei corpi. Secondo, eliminazione della soggettività vuol dire: non quello che penso io, che pensi tu, non chi ha più argomenti e capacità di sopraffazione, non ascoltando me - dice Eraclito - ma il logos a tutti comune. Quindi la filosofia nasce come espulsione della certezza sensibile e come espulsione della psicologia: se vogliamo costruire un sapere oggettivo, bisogna procedere, dice Platone, per numeri e idee. E dice la leggenda che per entrare nell’accademia di Platone era necessario conoscere bene la matematica e la geometria. Quindi la filosofia nasce come pensiero astratto, e qui fa la differenza radicale tra occidente e oriente. Sta a dire che mentre l’orientale dice l’albero della luce e delle tenebre, l’albero della vita e della morte, noi diciamo l’albero, cioè prescindiamo dalla qualità con cui gli alberi si presentano, prescindiamo dalle valenze simboliche con cui li configuriamo e assumiamo l’essenza dell’albero e con quella noi nominiamo tutti gli alberi della terra. Qui è la differenza: astrarre, prescindere dal sensibile, non fare riferimento alle cose nella loro concretezza, che sono sempre imprecise: non si dà in natura un triangolo perfetto come l’idea di un triangolo: i fisici lo sanno molto bene, che ogni volta che fanno gli esperimenti, escludono gli estremi, gli eccessi dalla loro gamma sperimentale e assumono una media per stabilire quale è il vero processo. La filosofia occidentale allora nasce anzitutto come separazione dalla dimensione orientale, molto concretista, molto simbolica, e nasce come esclusione della corporeità, esclusione della certezza sensibile, esclusione della mentalità soggettiva o del parere di ciascuno di noi, che i greci chiamano doxa, opinione, non interessante per costruire la verità.
    Secondo balzo di questa astrazione verso cui ci stiamo incamminando in questo scenario del pensiero calcolante che si farà un recinto sempre più stretto è la scienza.
    Nel 1600 quando nasce la scienza che noi siamo soliti chiamare moderna o matematica, si compie un’operazione ben descritta da Galileo, il quale dice che per fare scienza è necessario tradurre tutte le qualità in quantità. Quindi c’è una accentuazione di questa intenzione platonica di eliminare la certezza sensibile. E’ chiaro che l’acqua minerale non è l’acqua del rubinetto… che non è quella del fiume… che non è quella del ruscello… che non è l’acqua del mare. E allora se noi dovessimo fare riferimento alle acque così come si presentano in natura, non arriveremmo a costruire scienza. Stando all’esempio delle acque bisognerà dire H2O, non più “Chiare fresche dolci acque” come diceva Petrarca. Bisogna uscire dallo scenario delle qualità e arrivare alla determinazione quantitativa di tutte le cose, perché solo la quantità è calcolabile e solo col calcolo si perviene a una conoscenza precisa, oggettiva e valida per tutti.
    Non solo, ma la scienza moderna compie anche un’altra operazione. Non dobbiamo fare come i Greci, dice Bacone, i quali cercavano di catturare le leggi di natura, e per catturarne le costanti e regolare la loro esistenza a partire da quelle costanti individuate. Importante invece è che gli uomini formulino delle ipotesi (in greco le ipotesi si dicono mathematha, le cose anticipate: si anticipano dei modelli matematici): si sottopone la natura a esperimento, e se l’esperimento conferma l’ipotesi matematica anticipata, allora si assume questa ipotesi fatta dagli uomini, cioè dalla comunità scientifica, e una volta che è verificata e confermata dalla natura la si assume come legge di natura. Kant ne parla come della rivoluzione copernicana, e dice che mentre prima del 1600, prima di Galileo e Torricelli l’uomo guardava la natura come lo scolaretto che vuole imparare qualcosa dal maestro, a patire dal 1600 con la nascita della scienza moderna l’uomo si comporta come il giudice, che obbliga l’imputato a rispondere alle sue domande.
    Sotto questo profilo possiamo dire tranquillamente che la scienza è l’essenza dell’umanesimo. Umanesimo non sono tanto le opere letterarie, non è il “De dignitate hominis” di Lorenzo Valla, l’umanesimo è la scienza,. Cartesio lo dice esplicitamente: attraverso la scienza l’uomo diventa dominator et possessor mundi: questa è l’essenza dell’umanesimo, il dominatore e il possessore del mondo: attraverso il calcolo a cui riduce l’ordine naturale, alle sue ipotesi matematiche anticipate.

    Detto questo, intervengo nel mondo economico. Il mondo economico (l’economia propriamente detta come scienza nasce nel 1700 e trova la sua prima espressione compiuta nell’opera di Adam Smith sull’origine e la natura della ricchezza delle nazioni. Ma l’economia compie un’operazione molto importante, che è la semplificazione della lettura del sociale. In che modo? L’economia assume come persone esclusivamente i titolari di interessi. Gli altri cosa sono? Hegel lo dice in maniera brutale: polvere della storia. Anzi, Hegel dice addirittura che l’individuo diventa persona quando ha dei beni, o quando ha dei denari. E la ragione è molto semplice, perché solo chi ha beni e denari è controllabile socialmente: è imputabile, è punibile, gli si può sottrarre i suoi beni, ma chi non ha niente difficilmente è controllabile. L’economia compie questa prima grande operazione: uomini sono i titolari di interessi, e a partire di lì si comincia a leggere il sociale.
    L’economia fa anche un’altra operazione importante sempre in questa direzione, compie la stessa operazione che aveva fatto la filosofia nel suo tempo, e a maggior ragione la scienza: quella di depersonalizzare i rapporti. Mentre prima della nascita dell’economia propriamente detta i rapporti erano estremamente soggettivi (io padrone avevo a mia disposizione lo schiavo o il servo della gleba, ero proprietario di questa persona e di tutta la sua vita), l’economia dice: forse non è necessario impadronirsi delle persone, è sufficiente regolare i rapporti investendo non sulle persone ma sulle loro prestazioni. Per cui tu feudatario mi assegni un lavoro, io tuo subordinato come persona sono libero, è sufficiente che renda a te la mia prestazione, che posso svolgere io o far svolgere ad altri. Ancora una volta vediamo che l’economia al pari della scienza, al pari della filosofia espelle le soggettività, perché regola i suoi rapporti solamente sulla base delle prestazioni oggettive, che vengono remunerate o in natura o attraverso il denaro. Oggi per noi il denaro è una cosa molto semplice, tutti noi abbiamo a che fare con quello che io considero l’unico generatore simbolico di tutti i valori oggi, non solo in Occidente, ma il denaro non è sempre stato così. Aristotele dice che il denaro non può produrre ricchezza, perché non è un bene, è solo il simbolo di un bene: il valore del denaro lo decide la legge, che fa valere il denaro. In greco la parola legge si dice nomos, la parola denaro si dice nòmisma, vale a dire qualcosa che vale per effetto di una legge. Anche il Cristianesimo porta avanti questa logica che il denaro non produce ricchezza, in base al principio evangelico: “Mutuum date nihil inde sperantes”, fate prestiti, prestate denaro senza sperare nella restituzione, tant’è che era proibito costruire banche, fare mutui o cose di questo genere: era concesso agli Ebrei perché in quanto deicidi erano già destinati all’inferno, e quindi come tali potevano anche fare qualche peccato in più.
    Questo per dire che fino al 1200-1300 io denaro non era così importante come lo è per noi: per noi è diventato ciò a cui tutto si riferisce. E a segnalare bene questa trasformazione è Marx, il quale dice che l’economia, istituendo il denaro come misuratore del valore di tutte le cose, rivela di essere pregna di sottigliezze metafisiche e capricci teologici. Come in ambito teologico Dio misura tutte le azioni, che si riflettono in Dio per essere giudicate giuste o ingiuste, prive di valore o fornite di valore, nella stessa maniera il denaro diventa quell’equivalente generale dove tutte le merci si riflettono. Dice Marx: “girando per Londra io vedovo i negozi pieni dei frutti della terra, le spezie indiane, dai tappeti persiani ai revolver americani, però tutti questi corpi non hanno nessuna significanza in sé. La loro significanza ce l’hanno solo se si speculano (la speculazione, fattore economico e fattore filosofico), se si riflettono in quell’equivalente generale che è il denaro. Le cose, i corpi delle cose (è chiaro che un ortaggio ha diverso uso rispetto a un tappeto, il tappeto rispetto a una spezia, la spezia rispetto a un revolver. Però l’uso delle cose non è il loro vero valore: il loro vero valore è nella loro capacità di riflettersi in quell’equivalente generale che si chiama denaro. Anzi, lui dice in quell’anima che sono i cartellini bianchi dove è scritto il pound, il valore delle cose, quanto valgono. Perché, dice Marx, il valore delle cose non è determinato dal loro uso, cioè dalla capacità che hanno di soddisfare un bisogno, ma è determinato dal loro valore di scambio, cioè dalla loro capacità di permutarsi con altri beni, per cui ad esempio un bicchier d’acqua chiesto qui a Trento forse me lo regalano, chiesto nel deserto vale molto di più. Questo sta a dire che non è la capacità dell’acqua a soddisfare un mio bisogno che probabilmente è eguale sia qui che là, ma è la capacità di permutarsi di quel bene con altri beni, il cosiddetto valore di scambio. E sulla base del valore di scambio si misurano tutte le cose, è la loro permutabilità che le fa valere, non la loro intrinseca corporeità. Quindi l’economia non fa altro che la radicalizzazione di quell’impianto filosofico che Platone aveva instaurato. Platone diceva: se vogliamo produrre una verità dobbiamo prescindere dai corpi, dobbiamo prescindere dall’approssimazione con cui le cose si presentano nel mondo e fare riferimenti ai numeri e alle idee che nella loro perfezione la significano; nella stessa maniera n ambito economico la corporeità delle cose diventa irrilevante, la loro capacità di soddisfare i bisogni diventa irrilevante, perché rilevante diventa la loro capacità di permutarsi e il loro valore nella loro potenza permutativa, nello scambio, con quello che si dice: il mercato.
    Però, dice sempre Marx: attenzione, se il denaro diventa la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, allora badate bene, dice Marx, che il denaro non è più un mezzo ma è il primo scopo che tutti vogliono. Tendenzialmente, dice sempre Marx, noi consideriamo il denaro un mezzo per soddisfare i bisogni e produrre beni. Però, se il denaro diventa la condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno e per produrre qualsiasi bene, allora il denaro non è più un mezzo ma diventa il primo fine per accaparrarsi il quale si vedrà se soddisfare i bisogni e in che misura produrre beni. Si verifica cioè quello che in filosofia si chiama eterogenesi dei fini: cioè quelli che percettivamente sono concepiti come fini, diventano mezzi qualora il mezzo per conseguire questi fini diventa la condizione universale per realizzare qualsiasi fine.
    Per non apparire troppo marxista, diciamo che questo teorema era già stato esplicitato da Hegel, il quale nella “Scienza della logica” 40 anni dopo che Adam Smith aveva scritto il libro fondamentale dell’economia che prima ho citato, dedica un centinaio di pagine a dire un paio di cose molto importanti. Dice, primo: Adam Smith diceva che la ricchezza delle nazioni sono i beni. Non sarà più così, dice Hegel, perché il primato non spetterà ai beni ma agli strumenti, perché i beni si consumano mentre gli strumenti producono beni: la vera ricchezza allora non va più visualizzata nel bene ma nello strumento. Alla stessa maniera, dice Hegel, dobbiamo considerare che quando un fenomeno – e questo è il nocciolo attorno a cui dobbiamo fare qualche riflessione – aumenta quantitativamente, non abbiamo solo un aumento quantitativo, ma determina anche un mutamente qualitativo dell’impresa. Cioè la quantità, quando aumenta, determina una variazione di qualità. E fa un esempio molto semplice: si mi tolgo un capello sono uno che ha i capelli…due… se me li tolgo tutti sono calvo: cambiamento qualitativo. Marx cattura questo argomento hegeliano, e dice: se il denaro è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, l’aumento del denaro come mediatore universale di tutte le merci, fa sì che il denaro non è più un mezzo ma diventi il primo fine (cambiamento qualitativo della sua natura) per accaparrarsi il quale si vedrà se produrre beni e in che misura, e soddisfare bisogni e in che misura. Cioè quelli che percettivamente sono i fini dell’economia (soddisfazione dei bisogni e produzione di beni) diventano mezzi per produrre quel grande mezzo aumentato quantitativamente, divenuto condizione universale per realizzare qualsiasi scopo e quindi per ciò stesso il primo scopo.
    L’economia è la forma più alta di razionalità raggiunta dall’uomo, ma non la suprema, perché l’economia soffre ancora di una passione umana che è la passione per il profitto, di cui la tecnica non soffre.
    Per cui l’economia che ha – a partire dalla filosofia, a partire dalla scienza – organizzato se stessa matematicamente, eliminando soggettività, eliminando corpi, eliminando tutto ciò che ha a che fare col mondo sensibile, e visualizzando se stessa in quella dimensione virtuale che si chiama denaro computabile, l’economia figlia della filosofia e figlia della scienza, deve cedere il passo a una forma ancora più razionale che si chiama tecnica, perché l’economia ha ancora in sé una forma irrazionale che è la brama del profitto, il desiderio del denaro di cui la tecnica è assolutamente disinteressata.
    Per cui la tecnica dobbiamo considerarla oggi come la forma più alta della razionalità umana, e soprattutto dobbiamo considerarla come la grande manifestazione e la più rigida delle manifestazioni di quello che stiamo chiamando pensiero calcolante.
    Se usiamo il ragionamento di Marx e lo applichiamo alla tecnica, e diciamo se la tecnica è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, allora la tecnica non è più un mezzo ma il primo scopo che tutti vogliono, perché senza di essa nessuno scopo si può realizzare, anzi ogni scopo rimane semplicemente un sogno.
    Sono passati una ventina d’anni da quando è crollata l’Unione Sovietica. Perché è crollata? Perché nel 1989 il suo dispositivo tecnico era enormemente inferiore al dispositivo tecnico del suo antagonista che era il capitalismo americano. Quando nella capitale dell’Islanda Gorbacev incontrò Reagan per dirgli di non fare lo scudo stellare perché da parte sua non aveva nulla da contrapporre… Basta questo per dire che se lo scopo è il comunismo, ma per realizzarsi ha bisogno dell’apparato tecnico, quando vien meno questo mezzo tecnico che tutti continuiamo a considerare un mezzo, il comunismo crolla.
    Il quale comunismo non è crollato dunque perché la gente aveva fame, perché non era libera… non sono mai le ragioni umanistiche a determinare i collassi storici: essi si determinano quando la condizione universale per realizzare l’evento collassa. Nel 1960 quando la tecnica dell’URSS era equivalente alla tecnica degli Americani (ed era anzi superiore se è vero che i sovietici sono andati nello spazio prima degli americani), è chiaro che il comunismo non poteva crollare.
    Questo sta a dire che se la tecnica è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, la tecnica è il primo scopo, ciò a cui tutti puntano, che tutti vogliono, al di là di qualsiasi finalità.
    E per renderci conto che è al di là di qualsiasi finalità, basta che consideriamo come sia nell’URSS come in America gli studi sul perfezionamento della bomba atomica non sono mai stati interrotti, e proprio in questi giorni abbiamo visto l’esibizione di un missile che presenta un perfezionamento nel carico di bombe atomiche a loro volta perfezionate rispetto a quella di Hiroshima… questo sta a dire che se noi siamo in grado già oggi di distruggere diecimila volte la terra, che cosa vuol dire un comparativo in questo contesto? Che cosa vuol dire “perfezioniamo”? Questo vi dice che la tecnica non ha nessun scopo, e che il suo perfezionamento è il massimo della concupiscenza umana, perché senza questo mezzo - che continuiamo a considerare un mezzo, in realtà è diventato il nostro ambiente, è diventato il fine - tutti gli altri scopi diventano sogni, illusioni, utopie, desideri, ma niente di realizzabile.
    Questo ha delle conseguenze enormi su tutti gli scenari, e il pensiero calcolante che regola la dimensione tecnica influisce su tutte le figure della nostra cultura, influisce per esempio sul concetto di verità: la verità noi l’abbiamo sempre considerata come qualcosa che sta nell’iperuranio, qualcosa che sta nei cieli, qualcosa che sta nella mente di Dio, qualcosa rispetto a cui l’uomo va alla ricerca… no! per la tecnica la verità è l’efficacia, ciò che si realizza è vero perché ha le condizioni per realizzarsi, ciò che non si realizza non è vero perché non aveva le condizioni. Quindi abbiamo una riduzione secca della verità a efficacia.
    Una modificazione radicale del concetto di libertà: non è che tu sei libero perché sei un uomo e hai l’anima e hai ricevuto il libero arbitrio. No! la tecnica molto semplicemente ti dice: la tua libertà è limitata, la tua competenza di linguaggio nei vari giochi in cui puoi intervenire: più sei competente e più disponi del vocabolario, dei vari giochi, delle varie competenze, ti puoi muovere; meno ne disponi devi restare lì dove sei, e quindi c’è uno spostamento della libertà dalla persona al ruolo. E cose di questo genere.
    Ma adesso noi vorremmo tornare un momentino su quella dimensione che è la contrazione tra il pensiero calcolante tipico della tecnica e il pensiero ideologico, passionale, tipico della politica. Platone riteneva che le tecniche dovessero essere governate da quella che lui chiamava la basilikè techne, la politica, perché mentre le tecniche sanno come si devono fare le cose, ma non sanno perché si devono fare, e la politica invece è in grado di assegnare i fini alle tecniche, gli scopi, di indicare i perché le cose devono essere fatte. Per cui la politica era la tecnica regia, ciò che governava le tecniche: questo si fa, questo non si fa. Oggi purtroppo non è più così perché la politica non è il luogo della decisione, perché la politica per decidere deve guardare l’economia, e quindi il luogo della decisione si sposta dalla politica all’economia. Non solo, ma l’economia a sua volta per decidere i suoi investimenti guarda le risorse tecnologiche, per cui il luogo della decisione è collocato là, nelle tecnica… che diventa il luogo della decisione… e la politica cosa diventa? Diventa retorica, luogo delle passioni, gestione delle passioni collettive, oppure amministrazione. Tutti quanti invochiamo l’amministrazione, la buona amministrazione, e l’amministrazione è buona se usa propria la struttura della tecnica, cioè quella ragione strumentale che consiste nell’ottenere il massimo risultato col minimo impiego di mezzi. Tutte le polemiche che si fanno oggi e le accuse che si rivolgono alla politica, la si accusa di non usare il pensiero calcolante, la si accusa di non usare la ragione strumentale, la si accusa di disporre di troppe risorse rispetto agli effetti. Noi stessi desideriamo il pensiero calcolante perché non disponiamo più di altri pensieri. Questo fa sì che la politica si riduca a retorica anche perché la tecnica ci pone sul tavolo un’infinità problema rispetto ai quali non abbiamo alcuna competenza.
    Quando si è chiamati a esprimere il voto per esempio in alcuni referendum circa temi su cui non abbiamo competenza non essendo fisici atomici (per le centrali atomiche) o biologi molecolari o genetisti (per gli ogm), come si fa a decidere, a votare? Si decide e vota sulla base della persuasione: ecco qui la retorica, l’arte della persuasione: mi piace il parere di quel persuasore che mi affascina, mi convince quella persona, credo in questa fede e quindi seguo questo consiglio; ma la retorica in quanto mozione degli affetti, fascinazione è uno scenario completamente irrazionale, e se noi decidiamo su base irrazionale, la democrazia soccombe all’evento retorico. Probabilmente la democrazia è finita perché la tecnica ci pone dei problemi che oltrepassano la nostra competenza.
    Ma la tecnica fa di più.
    Ma cosa intendiamo per tecnica? Intendiamo l’insieme degli strumenti, e qui ci siamo, la cosiddetta tecnologia, ma soprattutto quello che dobbiamo pensare è che la tecnica è la forma più alta di razionalità, lo abbiamo detto prima, e significa esattamente che bisogna ottenere il massimo risultato con il minimo impiego di mezzi. Intendo per razionalità non solamente il mondo delle macchine, ma anche la burocrazia è una dimensione razionale: pensate se in un contesto burocratico, in un comune, si dovesse prendere in considerazione le vite vissute: si è dei numeri, delle carte di identità, dei codici fiscali e la macchina funziona proprio perché ci tratta così. Se dovesse farsi carico di tutto non riuscirebbe ad articolarsi. Lo so che la gente chiede di essere riconosciuta come soggetto, come individuo, come persona, come biografia, ma non può la macchina burocratica fare questo. Esattamente come quando si chiede ai medici di essere umani, è meglio che siano semplicemente tecnici, e già questa è una garanzia, buoni tecnici. L’umanità andiamo a cercarla altrove, forse non sono proprio loro i deputati all’umanità.
    Questa struttura della razionalità che funziona nel mondo della burocrazia, nel mondo delle amministrazioni, delle banche, del lavoro, ha un certo suo modello, e questo modello si chiama macchina. Le macchine rispondono a quelle due grandi istanze del pensiero fatto calcolo che è l’istanza dell’efficienza, della produttività, della funzionalità, che sono le grandi categorie che funzionano oggi nel nostro mondo, vivendo noi nell’età della tecnica.
    E rispetto alle macchine l’uomo presenta qualche inconveniente. C’è un bel libro di G. Anders, allievo di Heidegger, che essendo ebreo ha dovuto emigrare in America, dove come tutti gli emigrati è stato messo a lavorare alla Ford. Aveva scritto al suo maestro Heidegger dicendo: tu mi hai insegnato che l’uomo è pastore dell’essere, ma io vedo che qui sono il pastore delle macchine. Rispetto alle quali, dice Anders, provo anche una certa vergogna, una vergogna prometeica, perché vedo che le macchine sono molto più perfette di me, e in effetti la macchina è l’oggettivazione dell’intelligenza umana collettiva che ormai supera grandemente la competenza individuale di ciascuno di noi. La macchina è l’oggettivazione dell’intelligenza collettiva dell’umanità che supera a mia competenza, mia di chi usa la macchina. Io sono il pastore delle macchine, dice, ma la macchina diventa un po’ il modello rispetto a cui si giudica efficienza, funzionalità e produttività dell’uomo. E l’uomo rispetto alla macchina presenta degli inconveniente, dice Anders, hanno degli umori per cui un giorno lavorano uno un po’ meno, hanno delle malattie per cui ogni tanto ci sono ogni tanto si assentano, le donne hanno delle gravidanze perché generano dei figli. Allora l’uomo rispetto ai valori della tecnica (efficienza, produttività, funzionalità) è un po’ sotto, un po’ inadeguato e questa inadeguatezza viene costantemente sollecitata ad essere superata: dobbiamo diventare come le macchine, funzionali, perfette come loro. E in ciò veniamo anche spronati perché la tecnica ci ha modificato radicalmente.
    Prima abbiamo parlato della modificazione del concetto di verità, di libertà, ma soprattutto il concetto di identità. L’identità non è più una cosa che io possiedo perché dispongo di una biografia, di una storia, di essere nato in un paese, in una certa famiglia, di aver fatto certe esperienze, incontrato certi maestri, fatto certi studi, compiuto certi lavori, no: la mia identità mi viene conferita dal riconoscimento che ottengo negli apparati di appartenenza. L’apparato mi conferisce identità. Quello scambiarsi continuo di biglietti da visita, che cosa sta a indicare? Che il nostro nome non significa più niente, e cominciamo a orientarci quando leggendo il biglietto da visita vediamo la funzione: questo vuol dire che è l’apparato che mi dà identità. E questo l’abbiamo così bene interiorizzato che sembra che l’aspirazione di tutti quelli che si trovano ad operare in apparati, la loro ispirazione è la carriera, non il fatto che ti danno 100 Euro di più, ti alzano di livello: ti danno identità, ti rafforzano la tua identità, perché l’identità ti viene dal riconoscimento, e oggi in grado di riconoscermi è solamente l’apparato di appartenenza.
    Ma quando mi riconosce l’apparato di appartenenza? Quando sono efficiente, produttivo e soprattutto responsabile. Di che cosa? Della buona e corretta mansione che mi è stata assegnata. Cioè, la tecnica non mi rende responsabile degli effetti delle mie azioni, mi rende responsabile della perfetta esecuzione di azioni che l’apparato mi ha descritto e prescritto, quello che viene comunemente chiamato mansionario. Sempre il nostro caro amico G. Anders (marito di Hanna Arendt, cosa che lei ha poi sviluppato ne “La banalità del male”), il modellino dell’età della tecnica e del pensiero che lo governa che è la ragione strumentale (qui oggi definita e giocata sotto forma di pensiero come calcolo), il teatrino di provincia che ha anticipato l’età della tecnica, ma rispetto all’età della tecnica è rimasto un teatrino di provincia, dice Anders, è il nazismo. Perché nel nazismo ciascuno era responsabile della sua mansione, ma non degli effetti della sua azione. C’è un bel libro di Gitta Sereny, giornalista che ha intervista il direttore del campo di concentramento di Treblinka, tra l’altro ancora vivo, che gli chiedeva per 170 interviste nel libro “Quelle tenebre” tradotto da Adelphi, cosa provasse a fare quelle cose. Lui non riesce a entrare in quella domanda, alla fine si secca e le dice: Io venivo qui alle 9 di mattina, alle 11 avevo un carico di 3000 persone che doveva essere soppresso entro le 3, perché alle 3 arrivava il secondo carico, il metodo l’aveva individuato Wirth: funzionava, questo era il mio lavoro: meine Arbeit. Ecco un perfetto esecutore di un mansionario: qui si fermava la sua responsabilità. Dice Anders che questo è solo l’anticamera di quello che accade in ogni comparto o apparato tecnico, sia esso universitario o scolastico, la fabbrica, la banca: tu devi essere un buon esecutore del tuo mansionario, punto e a capo. Anzitutto non devi uscire dal linguaggio dell’apparato di appartenenza. Se si va in una banca, l’impiegato non può dire; ah buon giorno come sta sua zia… non va bene; tutto quello che riguarda la soggettività, a partire da Platone, poi la scienza, poi la tecnica… via tutta la dimensione soggettiva, occorre parlare solo il linguaggio dell’apparato di appartenenza, perché se fuoriesci non sei un buon funzionario. Basti pensare a quelli che costruiscono mine… quale è la loro responsabilità? Di fare bene le spolette. Hanno responsabilità dell’utilizzo di quello che stanno facendo? No! Questo ci dice che vivendo noi in un apparato tecnico, essendo gli apparati tecnici tra loro collegati, lo scopo finale delle nostre attività sono a noi sconosciute; ma se anche le conoscessimo, non ne siamo competenti, non sono di nostra competenza. Per cui la tecnica ci produce uno stato di assoluta irresponsabilità collettiva, perché io sono responsabile di questo piccolissimo settore; il mio compito è di essere produttivo, efficiente, funzionale in questo piccolo settore, simile alla macchina in questo piccolo settore, gli scopi finali non sono di mia competenza e forse non li conosce neanche.
    Sempre G. Anders ha scritto una lettera di una sessantina di pagine all’aviatore che ha sganciato la bomba su Hiroshima, gli aveva chiesto che cosa aveva provato buttare la bomba su una popolazione sconosciuta. L’aviatore non ha risposto, poi il NYT lo ha sollecitato a rispondere, e la sua risposta è stata elementare: nothing, that was my job; niente, questo era il mio lavoro. Attenti alla parola lavoro, perché il lavoro limita la responsabilità alla buona esecuzione del lavoro che mi è stato assegnato, ma gli effetti? Non sono di mia competenza. Quante volte ce lo siamo sentiti dire nella burocrazia, negli apparati, nelle scuole: il professore dice: ma il mio compito è seguire i programmi ministeriali, quel che succede non è di mia competenza... con lo stipendio che ci danno!…
    Allora la tecnica ci produce un’identità che ci viene data dall’apparato, ci produce una riduzione della responsabilità collettiva. Io credo che ci produca anche un altro tipo di intelligenza, molto modesta, che è un’intelligenza binaria, perché il pensiero calcolante funziona con i numeri, e se vogliamo fare un esempio conosciuto facciamo riferimento al computer, che funziona con la logica binaria 1-0, al massimo un black out: tradotto: sì, no, al massimo non lo so, e questa logica fa sì che io alleni il mio cervello a cercare le soluzioni predisposte dall’impostazione del problema, e su questo tipo di intelligenza, diffusa anche a livello popolare, si fanno i trailer dei telegiornali, le si fanno sulla base dei quiz, che è l’intelligenza binaria, si fanno persino gli esami di maturità (i test, la terza prova), si fanno le ammissioni all’università, e quella che scompare è l’intelligenza problematica, con cui l’umanità è cresciuta e ha fatto tutto quello che ha fatto. Problematica è quell’intelligenza che stante l’impostazione del problema non si limita ad aderire a una delle soluzioni predisposte: è anche quella che ribalta il problema, magari facendo vedere che è un falso problema, magari scompaginandone i termini e trovando soluzioni innovative rispetto all’impostazione data. Questo tipo di intelligenza va scemando come effetto dell’accadere tecnico.
    Questa è la condizione dell’uomo nell’età della tecnica.
    Non parliamo poi delle conseguenze emotive: la tecnica, informandoci attraverso la sua mediazione comunicativa di tutti i mali della terra, rende la mia psiche apatica. Nel senso che se muore mia mamma piango, se muore il mio vicino di casa faccio le condoglianze, se mi dicono che ogni secondo muoiono 8 bambini nel mondo, mi spiace ma a questo punto non reagisco più, per me questa è solo una statistica, perché il troppo grande mi lascia indifferente, anche perchè io non voglio toccare ogni giorno la mia impotenza a cambiare le cose, e quindi la rimozione dura dell’accadere del mondo.
    Oggi noi ci troviamo di fronte alla globalizzazione, che ha due strade: o impone ovunque il pensiero calcolante che è tipico della tecnica, o non ce la fa. Oppure per farcela deve disporre ancora di un pensiero umanistico. Io non so se per fare un business con gli Arabi è sufficiente parlare inglese; io penso che è necessario entrare nella simbolica di quella cultura, capire la gerarchia dei valori, vedere la loro visione del mondo, e il pensiero calcolante non è in grado di fare queste operazioni. I rapporti tra di noi sono sempre rapporti convenzionali, ma diventano veri quando le simboliche di ciascuno di noi si contaminano, entrano in relazione, al di là di quel che diciamo ci intendiamo. Ora, avere a che fare sempre con il massimamente diverso, forse è necessaria questa dimensione culturale: ci sono dimensioni antropologiche prima che tecniche-economiche per riuscire anche a decidere che cosa dobbiamo fare con quelle tecniche economiche: perché esse siano efficaci bisogna percepire la visione del mondo dell’altro.
    Il pensiero tecnico, calcolante è diventato pensiero universale, dicevo all’inizio che noi percepiamo subito cosa è utile, ma se dovessimo chiedere che cosa è vero, non è che lo sentiamo interessante, che cosa è giusto, buono, bello, anzi la stessa bellezza, la stessa arte diventa arte quando entra nel gioco del mercato. Diceva bene Hegel nella Fenomenologia dello spirito quando preconizzava la lotta di classe nell’antagonismo servo-signore, che poi Marx sfrutterà come classe operaia e classe padronale: oggi per esempio noi non assistiamo più a questa lotta di classe, non perché sono cadute le ideologie quanto i luoghi comuni che infestano la nostra mente disordinandola, non è che sono cadute le ideologie, non c’è più la lotta di classe perché essa, come diceva bene Hegel è il contrapporsi di due volontà. Oggi la volontà del padrone e quella dell’operaio sono dalla stessa parte, perché sopra di loro c’è una super anonima volontà che si chiama razionalità del mercato. Prima gli interessi di Agnelli potevano confliggere con gli interessi degli operai: c’era la lotta di classe. Adesso gli interessi di Agnelli stanno dalla stessa parte degli interessi dei suoi operai, per questo non c’è più la lotta di classe, perché sopra c’è la razionalità del mercato: è diventato così sistematico questo mercato… e chi è il mercato? È la razionalità del sistema, è nessuno, con chi me la prendo? E’ vero che Omero ci ha insegnato che nessuno è sempre il nome di qualcuno, ma questo qualcuno non risulta mai, e quindi non c’è l’antagonista.
    La tecnica ha anche modificato perfino la nostra patologia. Prendete per esempio la patologia più devastante di oggi... non so se sia anche la più diffusa, gli psichiatri dicono di sì, perché avendo a che fare con una risolvono tutto, perché ormai le patologie non vengono individuate a partire dalla loro configurazione, vengono individuate a partire dall’efficacia farmacologica. Se un farmaco funziona per questo, questo e quest’altro, raduniamo tutte le sintomatologie in quella patologia. Prendiamo la depressione, visto che è la figura più vasta (in Italia il 55% delle persone va avanti a psicofarmaci, dai sonniferi a quelli più robusti), cosa succede? Che una volta la depressione era fondata su un senso di colpa, uno sguardo al passato, un’assoluta insignificanza del futuro, una impossibilità di riprendersi da una colpevolezza immaginaria o reale o comunque ingigantita che non ti consentiva più di prendere qualsiasi iniziativa. Il gioco veniva spiegato psicanaliticamente da Freud sulla base che oggi diremmo in una società della disciplina regolata sull’obbedienza o la trasgressione, l’evento trasgressivo era colpevolizzante. Nella nostra società come società della disciplina ogni trasgressione era un senso di colpa. Sul senso di colpa si è costruito molto della nostra psicologia, il risultato è stato di natura depressiva.
    Oggi la depressione ha cambiato radicalmente forma: non è più il gioco tra permesso e proibito, ma è il gioco “ce la faccio o non ce la faccio”? La depressione nasce da un senso di inadeguatezza rispetto agli obiettivi che mi vengono proposti. E siccome ogni anno ti si alza sempre di un pochino l’asticella degli obiettivi, tu ti trovi sempre a rincorrere quella ricerca spasmodica della tua identità che conquisti solo raggiungendo l’obiettivo, l’obiettivo si alza e tu ti trovi sempre in uno stato di inadeguatezza, tant’è che la depressione si è corredata di altre sintomatologie sconosciute nella depressione classica, tipo l’insonnia (per forza, mi sento inadeguato, mi sveglio di notte), l’ansia, le crisi di panico: tutto roba che non era inclusa nel mondo depressivo, ma oggi giustamente è inclusa perché è cambiata la qualità, la genesi di quella malattia, che non è più fondata sul senso di colpa ma è fondata sul senso dell’inadeguatezza.
    A questo ci porta, anche nella modificazione della patologia è pervenuta la tecnica.
    Chiudiamo, dicendo che il pensiero calcolante o tecnico ed economico (abbiamo detto che l’economia è la forza più razionale raggiunta dagli uomini, oltrepassata dalla tecnica che è priva di passioni). E qui direi: o vince il pensiero calcolante, la ragione strumentale, l’organizzazione tecnica del mondo, e forse vincerà… il mio problema non è che esista questo pensiero, il problema è che diventa egemone, che non si danno altri pensieri al di fuori di questo. Ma al di fuori di questo pensiero c’è il pensiero del mondo della vita, e qui vorrei persuadervi che il mondo della vita è il mondo della ridondanza, il mondo della sovrabbondanza. Per arrivare all’evento umano la natura ha sprecato un’infinita di tentativi: antropoidi. Vediamo la stessa vegetazione che sorge spontanea ovunque c’è una possibilità senza alcuna utilità. Vediamo un’infinità di specie animali di cui se dovessimo chiederci quale è la loro utilità non ne troveremmo alcuna. A livello del mondo cellulare vediamo per esempio che c’è un eccesso di cellule in tutto il periodo fetale e in tutto il periodo della crescita, le quali hanno poi il buon gusto di suicidarsi attraverso il meccanismo della apoptosi, perché altrimenti avremmo un disordine universale nel nostro organismo, ma c’è un eccesso, uno spreco infinito. Uno spreco infinito nel linguaggio, dal punto di vista del linguaggio funzionale basterebbe dire a una ragazza: ti amo, e abbiamo finito il discorso, no? Questa parola deve essere arricchita, pompata, attraverso altri scenari: seduzione, gesti, comportamenti, afflati, linguaggi, l’amore affabulatorio, è tutta una ridondanza linguistica rispetto al linguaggio funzionale cui ci chiede di attenerci la tecnica.
    Quindi la tecnica non ospita il mondo della vita. E allora, siccome la tecnica è essenziale, siccome il pensiero come calcolo è la grande condizione dell’accadere del pensiero occidentale, sia in dimensione filosofica che scientifica, che economica che tecnologica, il problema è la giusta misura, come dicevano i Greci: katà metròn, non oltrepassare la misura. Quello che io temo è l’assorbimento di tutto il pensiero del mondo della vita nella funzionalità del pensiero tecnico.
    Per cui non si ha più pazienza nel sentire un discorso che non sia immediatamente funzionale, non si è più capaci di andare a pranzo se non è una colazione di lavoro, non si è più capaci di parlare con una persona se non c’è una cosa da dire, cioè questa figura della funzionalità che invade tutto il nostro scenario, emargina totalmente tutto il mondo della vita.
    E tutti quelli invece che si trattengono quel tanto nel mondo della vita, sono guardati con una certa sufficienza come non operativi, non funzionali, non efficienti, un po’ come desituati rispetto al contesto in cui ci si trova ad operare. Il mondo della vita è il mondo della ridondanza, il mondo della tecnica è il mondo dell’essenzialità. Il pensiero calcolante è essenziale, il pensiero non calcolante - quello che Heidegger chiamava pensiero meditante, riflettente, ideativo, creativo - è un pensiero assolutamente sovrabbondante: non ci sarebbero i poeti, non ci sarebbe la narrativa, non ci sarebbe la letteratura (che come vedete continua a essere eliminata nelle nostre scuole), la filosofia, il greco, il latino… via, il computer. Queste sono operazioni molto pericolose.
    Ripetiamo allora quella bella frase di Heidegger (lui era un nazista, e siccome era nazista avendo visto il teatrino di provincia aveva capito tutto della realtà della tecnica), riprendiamo quella sua frase: Inquietante non è che il mondo diventi un enorme apparato tecnico, molto più inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo, ma la cosa ancora più inquietante, e siamo al terzo grado, è che non disponiamo di un pensiero alternativo al pensiero come calcolo.

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