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    La narrazione: una oggettività misurata sul soggetto


     


    Carlo Molari

    (NPG 1983-10-10)

     


    OGGETTIVITÀ, SENSO, VERITÀ NELLE NARRAZIONI DI ESPERIENZE

    Quando si parla di «oggettività» a proposito di «narrazioni» si possono intendere cose diverse, a seconda del tipo di narrazione cui ci si riferisce. In generale «oggettività» è la corrispondenza all'oggetto, e l'oggettività di una narrazione è la sua verità.
    Se si tratta di narrazione parabolica o costruita con simboli, la sua oggettività è misurata dalla corrispondenza ai valori vitali che intende descrivere ed indurre. Questi racconti hanno una «verità di vita» che non corrisponde alla realtà dei fatti narrati ma che pure può essere valutata con criteri di «oggettività».
    Una parola evangelica, ad esempio, non è «vera» se ciò che narra è accaduto da qualche parte, ma se la vita possiede «realmente» le dinamiche descritte e se attraverso il racconto «il senso» che essa ha è sufficientemente chiarito.
    Se si tratta di cronache, l'«oggettività» è data dalla corrispondenza dei fatti narrati a quelli accaduti realmente.
    Se si tratta di «storia», l'oggettività è data anche dai nessi stabiliti tra i fatti, dal significato che ad essi si attribuisce in ordine agli sviluppi futuri, ecc.
    Mentre è abbastanza facile stabilire teoricamente in che cosa consiste l'oggettività di un racconto, molto più difficile è stabilire quando di fatto una narrazione sia «oggettiva», fino a che grado essa rispecchi la realtà.
    Da decenni gli storici discutono come fissare questi criteri ed è, credo, inutile qui riassumere queste dispute.
    Credo invece sia più utile riflettere sull'oggettività delle narrazioni di esperienze religiose o di fede.
    È infatti un genere letterario di uso frequente soprattutto nei gruppi giovanili. Ed è un tipo di narrazione soggetto ad ambiguità e pericoli notevoli.

    Narrazioni di esperienze

    Nelle narrazioni di esperienze vissute occorre distinguere chiaramente tra valori sperimentati, modalità e circostanze dell'esperienza, e interpretazione che se ne dà nel racconto.
    Ogni narrazione di questo tipo, infatti, è proposta di valori vitali attraverso l'interpretazione di un'esperienza.
    Ora spesso nella narrazione le varie componenti dell'evento vengono disordinatamente mischiate e a volte identificate.
    Il problema perciò è formulare alcuni criteri per l'oggettività della narrazione e individuare i metodi da seguire per non cadere nei tranelli della soggettività.
    Il racconto di esperienze vitali ha per natura sua un referente eminentemente soggettivo, perché coinvolge il narratore stesso come protagonista dell'esperienza raccontata. È quindi facile che gli aspetti «soggettivi» siano considerati per ciò stesso «oggettivi».
    Inoltre nel racconto il narratore dovrà esprimere anche la sua interpretazione dell'accaduto, quella almeno che ha accompagnato lo sviluppo stesso dell'evento. La sua interpretazione, infatti, fa parte, come elemento soggettivo, dell'esperienza vissuta.
    Infine ogni persona narrando ciò che ha vissuto e sperimentato deve adattare il racconto alla finalità che gli è stata proposta e tende quindi a «piegare» l'evento vissuto agli scopi perseguiti, accentuando alcuni aspetti e celandone altri irrilevanti.
    Tutto ciò complica notevolmente l'analisi dell'oggettività del racconto perché occorre distinguere bene i valori vitali in gioco e le loro dinamiche, dalla modalità con cui il soggetto li ha vissuti ed interpretati.

    Sincerità e verità

    A questo proposito è necessario distinguere chiaramente tra sincerità e verità del racconto. La sincerità sta dalla parte del soggetto mentre la verità è dalla parte dell'oggetto.
    Abitualmente si pensa che al narratore di esperienze vissute sia richiesto di essere «sincero». In realtà gli è chiesto lo sforzo critico di essere oggettivo, di narrare secondo verità. Chi è sincero non sempre dice «cose vere», ma espone quello che egli avverte come vero, i pensieri che ha avuto, le reazioni che hanno accompagnato l'esperienza fatta. Sincerità è presentare fedelmente il proprio modo di vedere la realtà, il proprio pensiero e le proprie reazioni. Verità è adeguarsi all'oggetto senza deformazioni o limitazioni.
    Il divario tra sincerità e verità ha due possibili ragioni:
    - la prima è la superficialità del narratore che è portato a considerare come «veramente sue» le impressioni emergenti nella coscienza o le ragioni che gli sembra abbiano guidato le sue scelte;
    - la seconda è la confusione tra l'evidenza di ciò che egli avverte o pensa e la chiarezza che accompagna la realtà nel suo apparire. Portiamo un esempio molto semplice: un cacciatore narra una battuta di caccia.
    Nella sua narrazione, ammesso che sia spietatamente sincero, esporrà ansie, paure, attese, desideri, gioie dell'avventura: ma solo quelli di cui ha preso coscienza e che ricorda. Tutto l'ambito dei desideri inconsci, delle pulsioni non avvertite, delle dinamiche profonde che lo guidavano nell'aggredire la selvaggina, nel raggiungere la preda ferita, nel portarla a casa come trofeo di vittoria non vengono manifestate. Parte della verità dell'evento, forse la più importante, non entra nella narrazione.
    Inoltre gli episodi vengono descritti così come sono stati soggettivamente vissuti e come ora sono ricordati e non come di fatto sono accaduti. Il salto del ruscello può essere apparso passo da gigante nella frenesia della corsa, ma di fatto poteva essere molto comune. La distanza della preda è sembrata al cacciatore, tutto intento nel mirare, molto maggiore di quanto realmente fosse, ecc. Ma se egli è sincero deve necessariamente dare la misura che in quel momento ha calcolato.
    Ammessa la sincerità del cacciatore, ciò che egli narra è come ha vissuto gli eventi, non come gli eventi di fatto sono accaduti.
    Certo anche il modo secondo cui il cacciatore ha vissuto gli eventi fa parte dell'evento. Ma l'oggetto della narrazione, così come essa si presenta, non è l'evento soggettivo (come il cacciatore ha vissuto l'esperienza), ma l'evento oggettivo (come di fatto sono andate le cose): quale distanza esisteva tra il cacciatore e la preda e non quale distanza egli ha pensato esistesse quando ha sparato, ecc.
    Una narrazione oggettiva in questo caso è quella che sostituisce ai verbi dell'oggettività, i verbi della soggettività. Invece di dire: la lepre era a circa 20 metri, dovrebbe dire era ad una distanza che in quel momento ho valutato 20 metri. È così di tutte le circostanze.
    Ma una simile narrazione darebbe il senso di una approssimazione e relatività che annullerebbe l'effetto del racconto stesso.
    Nelle narrazioni salvifiche o racconti di fede questo problema è centrale. E la sua soluzione non è facile.
    Le esperienze di fede, infatti, non hanno riscontri obiettivi facilmente verificabili. Se uno ad es. dice di aver avuto un'ispirazione e di aver provato una gioia profonda nel seguirla può essere molto sincero, ma non può offrire alcun riscontro verificabile sia per l'esperienza vissuta che per i frutti che ne sono seguiti. Egli ha collegato la gioia provata all'ispirazione seguita ma non è in grado di provare che non vi siano stati altri fattori intervenuti nel processo vitale.

    REGOLE PER UNA NARRAZIONE OGGETTIVA

    Da ciò non consegue che ogni narrazione di esperienza di fede sia falsa o incontrollabile nella sua verità. La conclusione è molto più semplice: occorre imparare a narrare non solo sinceramente ma anche con oggettività.
    La sincerità è il presupposto indispensabile ma non sufficiente per una narrazione di fede. Le regole perciò per una narrazione fedele sono le regole per una sincerità che sia anche oggettiva.
    Sono le regole dell'autoconoscenza.
    La prima condizione per una narrazione oggettiva è la penetrazione della propria soggettività profonda.
    La seconda è la distinzione tra vissuto e sua interpretazione.
    La terza è la percezione nitida del fine che si persegue nella narrazione.

    Penetrare nella propria soggettività profonda

    Il presupposto che deve guidare il narratore è la convinzione che certe realtà della vita non si scorgono se non con il «cuore».
    Il secondo presupposto è che il cuore dell'uomo è un miscuglio molto confuso di pulsioni, desideri, attaccamenti di cui non sempre è facile individuare le componenti.
    Il terzo presupposto è che la penetrazione del cuore, l'analisi della sua dinamica profonda richiede lungo tempo e notevole pazienza.
    Ammesso tutto ciò il narratore dovrà tener presente che l'esperienza compiuta da raccontare coinvolge molti elementi personali che gli sfuggono.
    In ogni caso il narratore dovrà essere consapevole dello scarto esistente fra l'esperienza compiuta ed i contenuti espressi nel proprio racconto. Nonostante la buona volontà e la sincerità egli deve riconoscere l'esistenza di componenti personali che sfuggono alla sua analisi e che attraverso il suo racconto possono essere in qualche modo da lui o dagli altri intravisti.
    Il racconto stesso infatti può divenire loro luogo epifanico attraverso le parole scelte, le immagini utilizzate, gli eventuali lapsus commessi, le connessioni stabilite tra i diversi momenti, ecc.
    La narrazione, quindi, deve essere vissuta con particolare attenzione perché può divenire per il soggetto stesso un momento di rivelazione della interiorità profonda coinvolta nell'evento raccontato.
    Il racconto perciò è una sorta di confessione o può entrare in un processo di autoanalisi in cui gli altri costituiscono una componente reattiva.

    Distinguere tra vissuto e sua interpretazione

    Nessuna esperienza è esente da interpretazione nel momento in cui viene vissuta. L'interpretazione è una componente essenziale di ogni gesto o atto umano.
    Non esiste evento senza parole che lo strutturino, lo chiariscano nel momento stesso in cui si svolge. Come non esistono parole che non mutuino i loro significati da esperienze vitali.
    Ad essere esatti si potrebbe dire che ogni evento storico è costituito da fatti e parole intrecciati insieme in una mutua chiarificazione. Come due facciate di un foglio non possono esistere autonomamente; l'una permette all'altra di essere. L'evento umano è sempre intreccio di fatti e parole. Ma le parole che si intrecciano con i fatti a costituire l'esperienza umana possono essere parole deficienti ed imperfette rispetto alla ricchezza della vita. Non sempre vengono individuate le molteplici parole che costituiscono l'anima di un evento umano.
    Il racconto può avere la mirabile capacità di raccogliere parole non ancora ascoltate, di farle emergere e renderle sonore. Occorre perciò che il narratore abbia consapevolezza che il suo narrare è un momento interpretativo. Esso permette di sorprendere la trama di interpretazioni che hanno accompagnato il fatto vissuto, e possono averlo deformato o chiarito nella sua profonda intenzionalità.
    L'interpretazione che ha accompagnato un'esperienza non è mai vera in senso completo. Essa è ancora provvisoria e temporanea. Riguarda una prospettiva e risente necessariamente delle condizioni soggettive del momento.
    Il racconto perciò suppone la manifestazione dell'interpretazione che si è data dell'esperienza stessa nel momento in cui la si è vissuta, ma anche il suo superamento. La sincerità condurrà all'esposizione completa dei propri atteggiamenti interiori, ma la verità guiderà alla ricerca di tutte le altre parole che di fatto hanno accompagnato il fatto vissuto. Il racconto di un'esperienza di fede deve essere per questo particolarmente attento. Esso infatti è in ogni caso momento di «rivelazione» non solo per gli altri ma per il narratore stesso.
    La rivelazione, il Concilio Vaticano II lo ha ricordato, avviene in una «economia di eventi accompagnati da parole». Le parole che accompagnano i fatti non sono parole divine anche se vengono da Dio che è la Verità. Sono sempre e solo parole umane se possono essere percepite dall'uomo. Esse nascono quindi nell'interiorità dell'uomo e riflettono i suoi meccanismi interpretativi.
    Anche i racconti biblici, che narrano eventi salvifici fondamentali, sono strutturati in questo modo. Non narrano semplicemente ciò che Dio ha compiuto nella storia umana, ma ciò che gli uomini hanno compreso vivendo particolari esperienze storiche suscitate dall'azione salvifica di Dio. I racconti biblici perciò espongono i pensieri, le interpretazioni, gli atteggiamenti degli uomini che hanno vissute le esperienze narrate. Le parole attribuite a Dio sono in realtà parole umane intrecciate ad eventi suscitati dall'azione di Dio.
    Anche le nostre esperienze attuali di fede hanno questo carattere rivelatore, ma nei limiti delle interpretazioni che le accompagnano, della luce interiore che le illumina, della penetrazione che il cuore possiede. I racconti possono esprimere solo la ricchezza intravista nel momento dell'esperienza stessa.

    Percepire la finalità del raccontare

    A queste finalità intrinseche del racconto se ne aggiunge sempre un'altra che è la spinta a narrare in determinate circostanze.
    Anche qui però occorre distinguere chiaramente tra finalità reale e finalità proclamata o coscientemente intesa.
    La sincerità conduce a proclamare la finalità che si ha coscienza di perseguire nel raccontare un'esperienza. Ma non sempre la sincerità è sufficiente alla verità delle intenzioni. È possibile infatti che la ragione vera che guida il narratore sia nascosta a lui stesso, o almeno non venga avvertita con chiarezza.
    Questa possibilità incide nella struttura stessa del racconto. Esso infatti sarà composto secondo le finalità perseguite. Gli elementi cioè saranno scelti, le connessioni saranno stabilite, la disposizione sarà ordinata secondo particolari criteri che dipenderanno prevalentemente dallo scopo che di fatto si vuole raggiungere.
    Quando l'intenzione cosciente non corrisponda esattamente a quella che di fatto si persegue, il racconto avrà due strutture concorrenti che si disturberanno a vicenda secondo le diverse finalità.
    Il racconto di fede ha generalmente una proclamata intenzione di testimonianza. Si vuole cioè comunicare ad altri il desiderio e la possibilità di ripercorrere le medesime strade e di pervenire ai medesimi risultati vitali. Ma spesso nel racconto di esperienze ci può essere il desiderio inespresso di trovare conferma alla propria fede, l'intenzione di suscitare l'ammirazione e la stima degli altri, la volontà di esercitare un dominio nei loro confronti, ecc. Secondo queste diverse finalità perseguite si utilizzeranno in modo conveniente le varie componenti dell'esperienza: alcune saranno appena accennate, altre fortemente accentuate; alcune saranno chiarite con esaurienti spiegazioni, altre saranno lasciate nella loro ambiguità.
    La prima domanda perciò che un narratore di esperienze di fede deve farsi riguarda quale finalità gli è stata proposta per il suo racconto. In base ad essa, infatti, egli sarà portato a privilegiare alcuni aspetti invece che altri, ad ampliare alcune componenti dell'esperienza aggiungendo elementi inesistenti ed eliminandone altri.
    La verità del racconto esige non solo che ciò che si narra sia fedele all'accaduto, ma anche che tutto ciò che è accaduto sia narrato. L'oggettività non è data solo dall'esattezza ma anche dalla completezza.
    Ora troppo spesso i racconti di esperienza di fede sono parziali.
    Succede come agli scienziati che raccontano i risultati delle loro esperienze scientifiche sconvolgendo l'ordine dei fatti accaduti, distorcendo le conclusioni provvisorie alle quali erano pervenute, introducendo connessione logica dove era solo casualità.[1]
    «Tra il processo della scoperta e la sua descrizione posteriore, esiste, in certa misura, lo stesso rapporto che intercorre tra la vita e il teatro: sulla scena, ogni parola, ogni gesto, deve servire all'azione, deve entrare a far parte integrante di un tutto; si evitano i tempi morti, o li si utilizza per ottenere degli effetti psicologici...».[2] In fondo ogni racconto è la trama di dramma e il soggetto si comporta come un fattore che deve attirare l'attenzione del pubblico e suscitarne l'applauso.

    IL VALORE DI UN'ESPERIENZA NARRATA: UN SENSO CHE AIUTA A VIVERE

    Queste diverse deformazioni del racconto incidono fortemente nell'interpretazione e nei collegamenti che il narratore offre fra i diversi elementi dell'evento.
    Gli stessi fenomeni, infatti, possono avere cause o stimoli molto diversi.
    Un buddista può fare la medesima esperienza di contemplazione e di gioia profonda che fa un monaco cristiano richiamandosi a Cristo.
    Un ateo può giungere a forme di oblatività generosa che in un religioso è motivata dal richiamo al Vangelo e alla sequela di Cristo. La sincerità esige che nelle narrazioni esperenziali i nessi tra i fenomeni vengano asseriti secondo le modalità in cui sono stati vissuti. Ma l'oggettività esige che ciò venga proposto con senso di relatività. Si deve avvertire cioè che il fenomeno descritto è molto più complesso e le dinamiche coinvolte hanno motivazioni e stimoli diversi da quelli nominati. I nomi che noi utilizziamo ed i riferimenti storici che impieghiamo sono occasioni per movimenti più profondi.
    Ciò avviene soprattutto negli adolescenti e nei giovani che non hanno ancora appreso a distinguere chiaramente nella loro interiorità le sovrapposizioni degli stati d'animo, e degli influssi subiti.
    È facile che essi attribuiscano alla fede in Dio o al riferimento a Cristo emozioni, dinamiche e speranze che nascono invece dal clima di amicizia in cui ad es. un rito religioso si è svolto o un'azione compiuta.
    L'oggettività del racconto esige perciò che non si stabiliscano connessioni assolute tra le premesse poste coscientemente ed i frutti vitali che ne sono derivati. La sincerità invece esige che si dichiarino con esattezza le connessioni così come sono state percepite e vissute nella propria esperienza.
    La tentazione facile di ogni racconto è quello di forzare i nessi esistenti fra i vari fenomeni così da presentarli come assoluti.
    La connessione tra i vari momenti dell'esperienza determina il senso, cioè l'orientamento vitale ed il valore dell'esperienza stessa. È chiaro quindi che quando non si hanno ben chiari i rapporti esistenti fra i diversi aspetti di un fenomeno, non si è in grado di individuarne il senso. Ed il racconto che li riguarda sarà disordinato, sterile.
    Un racconto di esperienze vitali deve aiutare a vivere. In termini teologici si potrebbe dire che esso ha un compito salvifico.
    Il criterio fondamentale di un racconto salvifico è la capacità di comunicare vita, di far crescere.
    E poiché la vita umana è possibile solo dove si scorge senso, il compito di una narrazione salvifica è quella di manifestare il senso della vita: la connessione cioè tra i suoi diversi momenti, la finalità degli eventi che la compongono, la ragione profonda di ogni situazione.
    Perché questo avvenga non è sufficiente la sincerità, ma è necessaria un'oggettività puntigliosa, una ricerca scrupolosa di verità.
    Il senso di un racconto esperenziale nasce dalla sua oggettività, dalla verità vitale che comunica, dall'energia che riesce a suscitare.


    NOTE

    [1] «In un'opera recente, tre autori... che hanno studiato i documenti relativi alla genesi di settanta invenzioni moderne, constatano un fenomeno tipico e raramente assente: la distorsione a posteriori dei fatti storici ad opera degli inventori stessi, e dei loro storici immediati... Alla fine, lo sviluppo storico viene esposto come una marcia continua e logica verso uno scopo preciso. I passi falsi e i ristagni vi intervengono solo come astuzie teatrali per aumentare l'interesse e il valore della realizzazione finale. La scoperta sarebbe il risultato di un programma, o quanto meno, di un procedimento razionale»: M.D. Gmerk, Psicologia ed epistemologia della ricerca scientifica, Episteme ed., Milano, 1976, p. 41. (Cita J. Jewkes, D. Sawers, R. Stillerman, The sources of invention, Macmillan, Edimburg, 1969², pp. 71-72).
    [2] Id. ib. p. 41.


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