Mario Pollo
(NPG 1983-4-11)
PREMESSA
C'è nel ricordo o nella fantasia del ricordo di molte persone cresciute in paesi rurali, cittadine di provincia o metropoli non ancora disumanizzate, una immagine della «domenica felice perduta». Immagine costruita intorno alla sottile melanconia dell'antico e infantile paradiso perduto, ma che possiede anche alcuni elementi di realtà in quanto essa è strutturata intorno ad un luogo fisico, ad un sentimento di appartenenza alla comunità di origine ed infine ad una particolare dimensione sociale del tempo della vita, e quindi del cammino dell'esistenza umana nel mondo.
Questi tre elementi di realtà sono quelli che fanno sentire, anche se distorto dal sogno di una perduta e forse infantile età dell'oro, come vero ogni ricordo della domenica e delle feste della propria infanzia e giovinezza.
Se si confronta questa immagine della domenica suggerita dalla malinconia con quella che emerge nella coscienza di ogni persona dall'esperienza concreta della domenica nella città industriale, non si può che rilevarne la profonda diversità che induce alcuni a parlare di crisi 'della domenica. Crisi della domenica che investirebbe non solo gli adulti melanconici e solitari, ma anche molti gruppi giovanili che non riescono a far divenire la domenica il momento «forte» della loro vita.
Di questo fatto esistono varie spiegazioni di tipo «sociologico»: la maggior appartenenza del ragazzo alla famiglia che si realizza la domenica, oppure il partecipare dello stesso a forme di divertimento diverse da quelle offerte dal gruppo.
Ognuna di queste spiegazioni, ancorché non falsa, non riesce però a dare in modo adeguato ragione del fenomeno specialmente se inserito nel più generale contesto della crisi della domenica.
Crisi che è vissuta tanto da adulti impegnati e disimpegnati, quanto dai giovani appartenenti o non appartenenti a gruppi. La radice di questa crisi allora è da ricercare nella cultura contemporanea e quindi nella mente e nel cuore delle persone che la esprimono.
Al fine di non cadere in quel conservatorismo tipico di chi ha lo sguardo rivolto al passato piuttosto che al futuro, è necessario risalire alla radice non immaginaria, non melanconica del vissuto della festa e della domenica quale si presenta nella coscienza degli uomini che hanno la ventura di vivere nelle città secolarizzate e svezzate per tempo alla cosiddetta «logica della ragione» come motore della convivenza sociale.
LA DOMENICA E LA FUNZIONE DELLA FESTA
La domenica, come ogni festa, serve, tra !'altro, ad attivare le funzioni sociali della sospensione e della distensione.
A ben osservare queste funzioni, importanti per la vita umana in quanto consentono ai singoli individui ed alla collettività di rigenerare le proprie energie materiali, psichiche e spirituali attraverso l'uscita anche solo temporanea dal ciclo ossessivo del bisogno e quindi della fatica del vivere nello spazio-tempo mondano, non si può non rilevare che esse nella pratica possono perseguire due risultati assai differenti tra di loro.
Infatti la sospensione e la distensione possono, nella attuale condizione storica dell'occidente industrializzato, servire tanto alla sottomissione dell'uomo al mostro astratto della produzione quanto a consentire ad ogni individuo un rapporto con se stesso più autentico che lo avvicini alla verità dell'Essere.
Nel primo caso la sospensione e la distensione della domenica servono a rigenerare le energie dell'individuo e della collettività in funzione della efficienza della produzione e del lavoro. La produzione è al centro della vita ed il riposo è semplicemente una necessità ineliminabile.
Nel secondo caso, che non nega però assolutamente la necessità del rapporto domenica/lavoro, la sospensione e la distensione festive sono finalizzate ad aiutare l'uomo a ritrovare se stesso e il vero senso della sua vita in una dimensione trascendente il ciclo della necessità e del bisogno e le costrizioni dell'ambiente naturale e sociale.
In questo ultimo senso la domenica o qualsiasi altra sospensione festiva assume un ruolo fondamentale per la ricerca del mistero di senso presente e nascosto nella vita umana.
Per l'uomo antico, o anche semplicemente ancora oggi per l'agricoltore delle società arcaiche non industrializzate, la festa rappresentava e rappresenta una uscita dal tempo profano e quindi un ingresso nel mitico tempo originario di quando avvenne la creazione del mondo. La festa è un partecipare ad un evento sacro, in un'altra dimensione esistenziale, che consente tra l'altro la compagnia con la divinità.
La festa per questo uomo era ed è la vera vita, la condizione originaria del mondo, il luogo in cui sentirsi in qualche modo divinizzato, che si contrappone alla vita falsa, lontana dalla verità dell'essere, tipica del quotidiano,
La valorizzazione della storia nella sua quotidianità indotta dal cristianesimo da un lato e la moderna secolarizzazione che ha portato a parlare di incontro diffuso con la divinità al di là dei riti ed eventi sacrali hanno condotto al superamento di questa mitica dimensione della festa e dei riti, pur senza rompere la discontinuità spazio-temporale ed esistenziale che esiste tra quotidiano e festivo.
La festa infatti pur non essendo più un ritorno al tempo originale è pur sempre un rivivere una storia che è accaduta, non in un tempo mitico ma in un tempo ed in un luogo ben definiti, diversi da quelli del presente e del luogo in cui la festa stessa si dice.
La festa si pone in quel luogo della storia umana in cui una volta per tutte la storia stessa ed il mondo dell'uomo sono stati restituiti alla vita. Questo naturalmente per il cristiano. Per l'ateo secolarizzato la festa, pur non avendo relazioni significative con l'evento Gesù Cristo, è comunque il luogo di una rottura, del vivere un momento «separato» dalla vita quotidiana, in cui è possibile una maggiore felicità, una più grande libertà ed una più spontanea appartenenza a se stessi.
Nonostante questo però la festa nella nostra società sembra maggiormente indirizzata a svolgere una alienante funzione di restaurazione delle energie fisiche e psichiche in vista della necessità della produzione, come accennavo poco sopra nel primo modello di sospensione e distensione con cui è vissuta la domenica.
LA DOMENICA NELLE CITTÀ INDUSTRIALI
Oltre a queste considerazioni in generale sulla funzione della domenica oggi prevalente, ve ne è un'altra di natura più particolare che sembra fornire linfa alla melanconia della domenica del buon tempo non industrializzato.
Questa considerazione nasce dalla costatazione che nelle grandi città la domenica non è più un evento sociale vissuto collettivamente in forme culturali omogenee, ma un arcipelago di eventi che accadono in molteplici isole della soggettività, in tanti piccoli mondi vitali quotidiani discretamente separati ed isolali tra di loro. Nelle grandi città industriali la domenica è divenuta un fatto personale, privato da consumare separatamente, da vivere nella propria isola fatta dalle relazioni primarie più significative.
Gli unici elementi collettivi di questa frammentazione della domenica sembrano essere alcuni grandi consumi: lo sport, la televisione, gli spettacoli, la passeggiata solitaria tra la folla, i riti collettivi. I consumi sono l'unico vero elemento collettivo della festa domenicale, l'unico vero elemento che faccia percepire agli abitanti delle isole della soggettività una appartenenza all'arcipelago più grande dell'oggettività, quale dovrebbe essere disegnata dal sistema sociale.
Da questa angolatura si spiega, o meglio, si comprende perché molti credenti abbiano un atteggiamento verso la celebrazione eucaristica tipicamente consumista. Per molti cristiani, e ciò non appaia blasfemo, l'Eucaristia è un evento da consumare al pari di altri nella dimensione spazio-temporale della domenica.
Senza entrare troppo nel merito dell'atteggiamento liturgico di queste persone nei confronti della Eucaristia, si può rilevare comunque che esse vivono la partecipazione al sacrificio festivo non come un momento sociale, collettivo, di vera comunione con le altre persone, ma come un atto singolare. Il momento collettivo è solo una somma di individualità ad elevata impermeabilità, per cui l'assemblea non può divenire, almeno a livello sociale, comunità ma solo insieme non strutturato di persone in relazione tra di loro solo attraverso il sottile e astratto legame della fede. A questa assemblea manca cioè la dimensione umana storica.
In questa dimensione consumistica la festa domenicale appare sempre più come un confuso vagare tra i meccanismi psichici e culturali della sospensione/distensione, come una ricerca di stimoli, di motivazioni e di energie idonei a sostenere la propria più o meno infelice routine quotidiana.
In altre parole la domenica appare nel suo interno priva di un «centro» attorno a cui strutturare l'esistenza delle persone e, nello stesso tempo, essa non è più il centro della vita sociale e culturale che si svolge nel tempo feriale.
Questo è conseguenza anche del fatto che la vita urbana è venuta perdendo i propri centri tradizionali che costituivano per gli abitanti delle città un importante luogo di identità, di individuazione e di vissuto oggettivo della cultura.
Senza questi centri la città si è disarticolata in frammenti.
La città da quando ha sostituito il collante emotivo-relazionale con quello sistemico-razionale è divenuta quell'arcipelago di solitudini rese solidali dai consumi.
LA «PROFANAZIONE» DELLA DOMENICA
Un'ultima considerazione sulla domenica riguarda il fatto che essa, anche per molti credenti, non è più un luogo dello spazio eminentemente sacro, il luogo cioè in cui «rivivere» l'esperienza storica ma trascendente della vita e del sacrificio di Gesù. La domenica non appartiene più, come invece accade per molti popoli primitivi ancor oggi, al tempo sacro, ma bensì al tempo profano. La domenica è stata «profanata», ridotta anch'essa ad un tempo inutile e senza senso.
La festa non è più un'uscita dal tempo degli accadimenti quotidiani per rivivere il tempo in cui l'uomo, la storia ed il mondo furono salvati, ma viceversa un radicarsi ancora di più nella banalità vuota della storia o al massimo in un mondo di festa disegnato dall'illusione.
Illusione che la felicità della domenica (e della vita) possa esistere attraverso una semplice sospensione del lavoro o attraverso la sospensione di una routine quotidiana ritenuta senza senso.
La felicità come fuga dal lavoro, necessario però per garantire i mezzi a questa felicità, ecco la spirale, per molti aspetti perversa, attraverso cui si radica il tentativo illusorio di far felice la propria esistenza consumando la sospensione dal lavoro in una sorta di industria dello svago e del piacere.
È proprio l'alienazione del lavoro vissuto in apnea, lontano dalla storia della salvezza, che produce il fantasma della festa. Fantasma che altro non è che un luogo dove l'uomo brucia la sua solitudine e la sua sete di vita; senza domande e quindi senza risposte, perché lascia solo risuonare la potenza di un desiderio la cui forza devastante e il cui limite è solo nella scarsità dei mezzi da investire nella festa.
PERCHÉ LA DOMENICA TORNI AD ESSERE «CENTRO ESISTENZIALE»
Ora è impossibile e nemmeno saggio riproporre che la domenica torni all'improvviso ad essere «centro» della vita sociale, culturale e religiosa di una collettività. La strada di intervento unico possibile è e rimane quella verso una direzione che restituisca alla domenica ed alla festa in generale una funzione di centro esistenziale per le persone e per i gruppi.
Quali sono le caratteristiche che un centro esistenziale deve possedere per essere considerato tale?
L'idea di centro, o più correttamente sarebbe meglio dire il «simbolo del centro», che è alla base di queste riflessioni, è una rielaborazione di uno dei più antichi e universali simboli umani. Uno di quei simboli cioè che danno senso e colore alla nostra struttura esistenziale.
Ogni cultura arcaica antica possedeva un centro sacro del mondo. Centro sacro del mondo che, pur essendo unico, era molteplice, in quanto poteva essere identificato tanto in un luogo della città quanto nelle singole cose. Ciò non faceva problema, dato che il centro non era un luogo «geometrico» e «fisico», ma un luogo sacro. Questo centro aveva una duplice funzione. La prima era quella di garantire un punto di gravità alla vita degli individui e della società, consentendo perciò loro di vivere, ruotando attorno al centro, in uno spazio in cui fosse salvaguardata l'appartenenza cosciente all'Essere.
La seconda funzione era invece quella di rappresentare ed insieme essere il luogo in cui le tre dimensioni costitutive del cosmo: il cielo, la terra e gli inferi, attraverso una rottura della loro separazione, entravano in contatto. Il centro quindi come luogo in cui cielo, terra e inferi entravano in contatto.
Giovandosi di questa situazione favorevole, l'uomo sacro iniziato poteva così salire al cielo e parlare con le divinità, oppure scendere agli inferi e parlare con i morti o semplicemente rivivere il sacro assassinio da cui, secondo molte credenze religiose arcaiche, è nato il cosmo. Attraverso il radicamento nelle tre dimensioni del cosmo che il centro sacro garantiva, l'uomo poteva assicurarsi un'identità fatta di un radicamento stabile in uno spazio-tempo esistenziale: la società e la cultura; e nello stesso tempo garantirsi una collocazione in un universo di senso capace di porre l'evento della vita individuale (la terra) in continuità sia con le radici arcaiche (gli inferi) sia con il futuro trascendente la storia umana (il cielo).
Il centro, che per poter essere compreso e utilizzato doveva divenire festivo, era apparentemente per l'uomo arcaico un luogo fisico, ma in realtà era un luogo sacro ed esistenziale.
Ora, e forse per fortuna, non è più riproponibile una concezione di spazio e di tempo di questo tipo. È necessario, però, riproporre il nucleo di verità che il simbolo del centro contiene, e cioè quella che il centro manifesta, radica e garantisce l'identità dell'uomo nella sua doppia dimensione di essere individuale e sociale.
Ma non basta. Così facendo infatti si ridurrebbe il centro (e, di conseguenza, la festa e la domenica) al consolidamento dell'aspetto sociale e culturale dell'esistenza. Occorre procedere oltre nella direzione della manifestazione e consolidamento della dimensione religiosa della esistenza. In altre parole, il simbolo del centro ripropone la urgenza, oggi soprattutto che l'uomo ed il giovane soffrono non solo di uno sradicamento culturale ma anche di un offuscamento della dimensione religiosa della vita, di spazi e tempi in cui collocarsi per guardare fino in fondo a se stessi: sia verso il passato ed il futuro, sia verso le proprie radici della necessità biologica e del tempo, sia infine verso la propria aspirazione di trascendenza spirituale, al di là del tempo e dello spazio storici.
La cultura umana non può rinunciare a proporre agli uomini dei centri che assolvano a queste funzioni. Se vi rinuncia, si può dire che di fatto rinuncia a se stessa e si avvia all'oblio dell'Essere.
COME PARLARE DI CENTRO ESISTENZIALE E RELIGIOSO ALL'UOMO D'OGGI
Come riproporre oggi questo centro e le sue concretizzazioni nello spazio e nel tempo?
Vorrei fare anzitutto una premessa, per non generare confusione.
Come già accennavo, prima il cristianesimo come accentuazione del culto a Dio, e quindi della comunione con Dio, che è la vita nel suo insieme (e quindi nella sua profanità) e poi la secolarizzazione come accentuazione del feriale come luogo in cui l'uomo realizza se stesso e quindi redime quello che nella visione antica era tempo inutile e vuoto, hanno di fatto ridefinito il rapporto tra tempo-spazio sacro da una parte e tempo-spazio profano dall'altra.
In fondo ci troviamo a dover scegliere tra due schemi rappresentativi del rapporto tra Dio e l'uomo.
Nel primo schema il mondo è anzitutto profano a motivo del male che ha segnato le origini della storia umana. In questo schema, se Dio vuol farsi presente nella storia e nella vita dell'uomo, tale presenza viene concepita come un intervento puntiforme di Dio nello spazio e nel tempo.
In questo schema è facile comprendere la festa, i riti, l'Eucaristia: sono tempi e spazi in cui Dio si fa presente in un mondo senza giustizia per salvare gli eletti. In fondo i sacramenti produrrebbero qualcosa che altrimenti non esisterebbe.
Il secondo schema rappresentativo parte invece dal riconoscimento che il mondo e la storia sono già, da sempre, avvolti e penetrati della presenza amorevole e perdonante di Dio. Dio e la sua comunione si offrono ad ogni uomo in ogni tempo e cultura. Naturalmente l'uomo ha sempre la possibilità di rifiutare questa salvezza. Ed è il peccato.
Dio si pone dunque nel cuore stesso dell'esperienza storica dell'uomo. È presenza, certo misteriosa, già nel cosiddetto profano. Presenza che non esiste dunque anzitutto perché si realizza attraverso interventi puntiformi ritagliati dentro un profano senza senso.
In base a questo schema i simboli ed i riti, la festa e la domenica sono rappresentazione simbolica esplicita riflessa della salvezza che si verifica sempre e dappertutto nel mondo.
È comprensibile come oggi sia facile riconoscersi nel secondo schema. Ma questo non deve portare a sottovalutare, ai fini di una consapevolezza della propria esistenza culturale e religiosa, i momenti simbolici, o, in altre parole, i luoghi in cui il «centro» che l'uomo vive nella sua vita di ogni giorno si esprime, si manifesta, si radica, e si consolida.
Se questa riflessione riguardava il rapporto tra spazio-tempo sacro da una parte e spazio-tempo profano dall'altra, ora mi sembra importante aggiungere alcune osservazioni riguardo al modo concreto con cui proporre questo evento spazio-temporale in cui l'uomo viene ad esplicitare e quindi ad appropriarsi del senso ultimo della sua storia personale e collettiva.
DAL CENTRO ESISTENZIALE AL CENTRO SPAZIO-TEMPORALE DELLA DOMENICA
Indubbiamente, nella condizione sociale e culturale attuale, il centro esistenziale non può più essere riproposto per mezzo di un «centro spaziale» riconosciuto da tutti come tale e quindi «universale» per gli abitanti della città o di un suo quartiere. Occorre accettare che il centro non abbia più un luogo unico ma sia molteplice, come sono molteplici i frammenti della vita sociale.
In ogni caso però il centro, anche se non più unico, deve necessariamente collocarsi in un luogo dello spazio-tempo.
Per un cristiano le coordinate che individuano questo luogo sono quelle costituite dalla domenica e dalla celebrazione dell'Eucaristia, in linea generale, e da altre coordinate che indicano in alcuni spazi subordinati la localizzazione del centro.
Questi centri subordinati possono essere il ritorno alla terra natale, il pranzo di tutta la famiglia unita, la lettura di un buon libro, l'attività sportiva, una festa popolare...
Il centro, cioè, può essere in ogni atto che attraverso la gratuità riconnetta la persona umana ad un senso «verticale» della vita, trascendente ogni discorso di utilità biologica e sociale.
Questo centro subordinato, per divenire pienamente funzionale e perciò significativo sul piano esistenziale, deve in qualche modo divenire sacro, e quindi tale da consentire agli uomini di leggere i segni del divino nella propria storia personale, in quella dei suoi familiari, in quella del suo prossimo ed in quella più generale della società a cui appartiene, oltre che naturalmente in quella del mondo.
Il centro esistenziale subordinato, illuminato dal centro sacro della festa, diviene il luogo in cui il racconto di redenzione della storia emerge alla coscienza dell'uomo, parlandogli dalle profondità più segrete. Ma accanto a questo centro del «frammento» sacrale è necessario, se si vuole che la cultura riesprima in modo significativo la festa come centro, che la celebrazione dell'Eucaristia avvenga in un contesto strutturale tale da consentire alle persone di vivere, almeno per una piccola parte del loro tempo, un'esperienza diretta, a livello relazionale ed affettivo, della comunità come luogo umanizzato della solidarietà.
Per contesto strutturale deve intendersi l'organizzazione sociale, urbanistica ed architettonica della comunità ecclesiale locale. In altre parole, è necessario che il centro festivo della celebrazione eucaristica accada in un contesto che prima, durante e dopo garantisca la possibilità di vivere un'esperienza di comunità agli individui che ad essa partecipano.
Sono necessari, cioè, dei momenti di partecipazione comunitaria dei credenti a livello locale che consenta loro, attraverso attività coagulanti, di uscire dall'isolamento e incontrarsi attivamente con gli altri. Momenti che possono essere però squisitamente locali e inerenti la vita del quartiere e della città.
È poi necessario che la chiesa sia dotata di strutture urbane ed architettoniche tali da consentire prima e dopo la celebrazione eucaristica un momento di incontro, di gioia e di celebrazione della festa.
CONCLUSIONE
Concludendo questa riflessione si può affermare che fare della domenica un centro esistenziale significa far sì che le cose «quotidiane» che si vivono durante questo giorno rivelino, manifestino il sacro di cui sono portatrici, che divengano cioè ierofanie. Non gesti eroici e straordinari, ma gesti tranquilli che sottratti al ciclo del bisogno e quindi potenzialmente gratuiti, possano rivelare all'uomo il senso nascosto nell'accadere dell'esistere umano nel mondo salvato e redento da Gesù Cristo. Se la domenica diventerà questo luogo, allora sarà capace di illuminare anche il quotidiano feriale e fare sì che lentamente anche questi divenga festivo e quindi dotato di un senso esistenziale al di là della pura sopravvivenza.