Il contributo dell'archeologia:
gli itinerari di Gesù di Nazaret
e lo sviluppo della
primitiva comunità cristiana
Michele Piccirillo
L'area geografica in cui si muove il racconto evangelico è limitata alla Galilea e a Gerusalemme, toccando marginalmente le strade del pellegrinaggio che, attraversando la Sa-maria e la Perea, univano la provincia settentrionale alla città santa dove troneggiava il tempio ricostruito con magnificenza da Erode. La comitiva di Gesù con i suoi discepoli si mosse nei villaggi abitati in prevalenza da Giudei, raramente sconfinando nelle terre «pagane». Una volta la ritroviamo nel territorio di Tiro e Sidone sul confine con la Fenicia (Mc 7,24). In un'altra occasione è sulla sponda orientale del lago di Tiberiade, nel territorio dei «Gergesei» (secondo una variante testuale geograficamente pertinente di Origene a Mc 5,1), sui confini del territorio di Hippos della Decapoli. Si spinse perfino nel territorio di Cesarea di Filippo, presso la sorgente del Giordano in 'Ain Banias sul confine settentrionale dell'antico regno di Israele (Mc 8,27).
Gesù passò gran parte della sua vita pubblica in Galilea sulla sponda dello specchio d'acqua che per la gente del luogo era «il mare». «Lasciata Nazaret, andò ad abitare a Cafarnao, che si trova in riva del mare, nel territorio di Zabubn e di Neftali» (Mt 4,13). La tradizione ci ha lasciato il ricordo di visite nei villaggi di Betsaida, di Corozin (Mt 11,20-24), di Naim (Lc 7,11), di Cana (Gv 4,46), di Nazaret, luogo d'origine di Gesù (Lc 4, 16s).
Dalla Galilea i pellegrini, che per la Pasqua o in occasione delle altre feste salivano a Gerusalemme, avevano diverse possibilità per raggiungere la città santa. Le' strade più seguite erano due. La più corta, lasciata la pianura di Esdrelon, si incuneava tra le montagne della Samaria e portava direttamente a Gerusalemme. Per evitare i pericoli che i Giudei correvano nell'attraversare i villaggi dei samaritani, era preferita la strada che passava per la regione della Perea. All'altezza di Gerico si riattraversava il fiume Giordano e, dopo una sosta nell'oasi di Gerico, i pellegrini potevano in una giornata giungere a Betania sul monte degli Olivi. Entrambe le strade ritornano nel racconto evangelico. Gli episodi narrati in Lc 9,51-56 e in Gv 5 avvengono sulla strada della montagna. La strada della valle è ricordata in Mt 19,1 (Perea); 20,29; Lc 19,lss (Gerico); Gv 11-12 (Betania); Mt 21,1 (Betfage).
Prima della fine «Gesù non si mostrava più in pubblico fra i Giudei, ma se ne andò da li, in una regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim» (Gv 11,54, odierna Tayybeh, a nord di Gerusalemme). Dall'alto del monte degli Olivi si dominava la città e il tempio dove ancora fervevano i lavori iniziati dal re Erode.
Con dettagli topografici minuziosi, gli evangelisti ci hanno lasciato il ricordo degli spostamenti di Gesù a Gerusalemme, dove si soffermava volentieri nel tempio, sotto il portico di Salomone (Gv 10,23). Gesù passa nelle vicinanze della piscina di Betesda (Gv 5), invia il cieco nato a lavarsi nella piscina di Sibe (Gv 9,7).
In città, celebra la Pasqua nella sala grande al piano superiore di una casa da lui conosciuta (Mc 14, l2ss). Al tramonto lascia la città e passa la notte in un podere chiamato Getsemani (Mt 26,36), «al di là del torrente Cedron dove c'era un orto, in cui entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, che lo stava tradendo, conosceva bene il posto, perché Gesù molte volte si era riunito là con i suoi discepoli» (Gv 18,1-2). Viene condotto da Anna e poi da Caifa (Gv 18,12.24), e dalla casa di Caifa nel pretorio (Gv 18,28). Viene condannato a morte «nel luogo chiamato Pavimento di pietra, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). Viene crocifisso nel luogo «detto del Cranio, in ebraico Golgota» (Gv 19,17), e infine seppellito in un sepolcro nuovo scavato in un giardino che si trovava li vicino (Gv 19,41).
Gli scavi archeologici in Palestina
Grazie all'intensa attività di scavo iniziata nel secolo scorso, oggi conosciamo molto meglio l'ambiente geografico e culturale nel quale il cristianesimo è nato. Gli archeologi hanno finora esplorato in Galilea i villaggi di Nazaret, di Cafarnao e di Corozin, le città di Magdala, di Tiberiade e di Betsaida-Julia sulla sponda del lago, localizzato e iniziato a scavare la città di Cesarea di Filippo presso la sorgente di 'Ain Banias, esplorato anche se in parte il villaggio di Betania sul monte degli Olivi, dando dei punti fermi alla geografia nella quale si muove il racconto evangelico.
In questi villaggi e città, con gli edifici monumentali civili e religiosi per lo più di epoca posteriore, stanno ritornando alla luce le abitazioni della gente con le suppellettili che venivano utilizzate nella vita di ogni giorno, come piatti, bicchieri e vasellame vario in terracotta, in vetro o in metallo, gli attrezzi di lavoro in ferro, i catini in pietra, le mole in basalto necessarie per preparare il pane quotidiano cotto dalle donne nel cortile della casa. A Cafarnao lo scavo ha permesso di rivedere la planimetria del villaggio con le case patriarcali piuttosto estese, anche se costituite di piccoli vani abitativi, costruite in insulae separate dai vicoli secondo un tracciato che gli urbanisti chiamano «ippodameo», affermatosi in epoca ellenistica. Gli scavi delle necropoli in Galilea come in Giudea hanno chiarito la forma delle tombe dei benestanti scavate nella roccia per lo più con fornetti o loculi sulle pareti e pochi letti ad arcosoho, chiuse all'esterno da una pietra piatta o circolare; i mausolei o i complessi delle famiglie dell'aristocrazia con molte camere intercomunicanti e un monumento funerario ben visibile all'esterno, e le tombe a fossa anonime dei poveri.
A Gerusalemme, gli scavi condotti nel Quartiere Ebraico sulle pendici della collina occidentale di fronte al tempio, hanno riportato alla luce sette o otto abitazioni del quartiere residenziale di Gerusalemme di epoca erodiana costruite sulle pendici terrazzate degradanti verso la valle del Tyropeion. Le due case più ampie hanno un cortile lastricato centrale sul quale si aprono i vani di abitazione con le pareti coperte da affreschi policromi e con i pavimenti mosaicati. I mosaici come gli affreschi sono dello stesso stile e gusto attestati nelle fortezze erodiane del deserto di Giuda. Una suppellettile lussuosa di fattura locale e di importazione accompagna queste case signorili. In particolare, queste abitazioni si caratterizzano per l'abbondanza di riserve d'acqua in cisterne scavate nel sottosuolo, di sale e di vasche da bagno finemente decorate oltre che di mikwaot o bagni rituali che rimandano alla ricca aristocrazia sacerdotale della capitale del giudaismo.
Le scoperte numismatiche hanno precisato la storia della monetazione nella regione e illuminato il susseguirsi dei re asmonei, dei re e dei tetrarchi erodiani, dei procuratori romani; hanno precisato l'anno di fondazione delle nuove città come Tiberiade o Cesarea di Filippo, l'èra di fondazione e il territorio delle città della Decapoli; hanno fatto luce sulle coniazioni degli zeloti giudei durante le due rivolte contro i Romani alle quali si contrapposero le coniazioni ufficiali dell'impero vittorioso a Roma o nella Provincia.
Anche se meno vistose, le monete trovate negli scavi integrano i testi scritti e le poche epigrafi monumentali. Tra le scoperte epigrafiche, di grande rilievo storico sono le due iscrizioni in greco provenienti dall'interno del tempio erodiano che ricordavano ai non giudei il pericolo di morte che correvano oltrepassando la balaustrata del cortile a loro riservato, e l'iscrizione monumentale trovata a Cesarea sul mare nel 1960 da una spedizione italiana, dove per la prima volta fu letto il nome di Pontius Pilatus Praefectus Judaeae.
La riscoperta ancora in corso sulla cima più alta del monte Garizim in Samaria della città sacerdotale e del tempio samaritano, rivale del tempio di Gerusalemme, ridà nuova concretezza alle pagine dello storico Giuseppe Flavio che ne aveva lasciato memoria, e alle parole della donna samaritana incontrata da Gesù presso il pozzo di Giacobbe ai piedi della montagna: «I nostri padri adorarono su questo monte e voi dite che è a Gerusalemme il luogo dove si deve adorare» (Gv 4,20). L'identificazione del tempio costruito, secondo Giuseppe Flavio, verso la fine del IV secolo e distrutto da Giovanni Ircano servirà a precisare storicamente i motivi di attrito tra le due comunità sorelle di cui si ha forte eco nel vangelo.
La ricerca archeologica ha soprattutto chiarito in modo determinante l'attivismo edilizio del re Erode e della sua famiglia magnificato dalle pagine entusiastiche di Giuseppe Flavio che ne tratta diffusamente nelle Antichità giudaiche (libro XV) e nella Guerra giudaica (libro I).
Il tempio e i palazzi di Erode a Gerusalemme
Gerusalemme, la città capitale del giudaismo, raggiunse al tempo di Erode il massimo sviluppo monumentale. I lavori di sbancamento del quartiere arabo esistente tra la porta dei Maghrebini e il Muro Occidentale, effettuati nel 1967 dai bulìdozer israeliani subito dopo la guerra dei Sei Giorni, resero possibili le indagini di scavo iniziate nel 1968 dagli archeologi israeliani sotto la direzione di B. Mazar a ridosso del muro erodiano. Oggi conosciamo meglio le porte del recinto ero-diano del tempio, già individuate con arditi tunnel dagli esploratori del secolo scorso, e le immediate vicinanze del santuario ebraico. L'immensa spianata di 488 m in direzione nord-sud per circa 280 m in direzione est-ovest era sostenuta da un muro ciclopico di contenimento che è stato possibile seguire fino alle fondazioni, in parte sul lato est, per tutta la lunghezza sui lati sud e ovest.
Il tempio sorgeva, come testimonia Giuseppe Flavio, sul punto più alto di questa piattaforma rettangolare in gran parte artificiale leggermente rastremata verso sud. Il muro era costruito con blocchi di calcare bianco finemente scolpiti che raggiungono anche gli lì m di lunghezza'per oltre 1 m di altezza e le 370 tonnellate di peso. La lavorazione dei blocchi con la caratteristica bozza bassa chiusa da un bordino fu eseguita nella migliore tecnica e gusto ellenistico. Dai frammenti di elementi architettonici recuperati è possibile ricostruire l'alzato del muro il cui migliore parallelo è il muro del Haram al-Khalil (Tomba dei Patriarchi) a Hebron, anch'esso di origine erodiana, anche se Giuseppe Flavio non lo ricorda.
Sul muro ovest, esplorato negli ultimi anni con un lavoro a tunnel sotto le case di Gerusalemme di epoca mamelucca, si aprivano la porta centrale, detta porta di Warren, collegata con un viadotto sopraelevato che superando la valle del Tyropeion univa la città alta al tempio; la porta di Barclay e l'arco di Robinson, che dagli scavi è risultato parte di una scala monumentale a doppia rampa con ballatoio centrale, che univa la strada lastricata che correva nel fondovalle con la basilica regia, costruita all'interno della spianata. La porta di Barclay era invece in relazione con una stradina pensile accostata al muro che correva sulle volte delle botteghe che si aprivano sulla strada sottostante.
L'elemento più interessante è stato recuperato nei pressi dello spigolo di sud-ovest del muro. È un blocco lavorato su diversi lati con incisa un iscrizione ebraica risultata frammentaria (lbet hatqia lhk...). In base all'integrazione proposta per l'ultima parola, sacerdote (lhakohen), tempio (lhekal) o trombettiere (lhakritz), si può pensare che l'iscrizione stesse a indicare il posto da dove si dava il segnale dell'inizio del sabato o a una indicazione in fase di montaggio per il muratore che doveva porre il blocco in opera.
Sul muro sud, si aprivano le porte di Hulda, più comunemente conosciute come Porta Duplice e Porta Triplice. La Porta Duplice, attraverso la quale entravano i pellegrini, risulta la meglio conservata all'interno della torre costruita dai crociati per proteggere l'ingresso alla spianata del tempio. Vi si accedeva attraverso un'ampia scalinata di 30 gradini in gran parte ricavati nella roccia e coperti da lastre di pietra. La scala era introdotta da una possibile piazza antistante. Per la Porta Triplice, a est della precedente, entravano i sacerdoti di servizio che avevano accesso ai depositi del tempio ottenuti all'interno della piattaforma sostenuta da possenti archi (le cosiddette Stalle di Salomone sotto la moschea di el-Aqsa). Nell'area antistante le due porte sono stati ritrovati diversi bagni rituali (mikwaot) per le necessarie purificazioni prima di entrare nel luogo santo. Lungo il muro sono stati recuperati capitelli, resti di fregi e di pilastri, pietre d'arco e colonne che, integrati con le descrizioni letterarie di Giuseppe Flavio, permettono anche di immaginare le proporzioni e la decorazione degli edifici all'interno della spianata...
Della Fortezza Antonia, costruita da Erode a difesa del tempio, si può essere sicuri dell'ubicazione sulla piattaforma rocciosa dove ora sorge la scuola al-Umariyyah. Al termine del tunnel aperto lungo il muro occidentale del tempio si possono vedere parte dei contrafforti della fortezza scavati nella roccia viva della montagna che venne sagomata a imitazione dei blocchi di calcare del muro, in relazione con un'area dove forse era stata programmata una piazza colonnata mai portata a termine. Restano una sezione del lastricato e due colonne.
L'indagine archeologica, ripresa negli anni '70 nell'area della cittadella sulla collina occidentale all'interno della porta di Giaffa, ha chiarito che gli architetti erodiani prima di costruire il palazzo reale, coprirono le strutture preesistenti con una imponente piattaforma di circa 3/4 m di spessore rinforzata da un reticolo di muri che si estendeva per circa 300/350 m in direzione nord-sud e circa 60 m in direzione est-ovest. Nell'area, come struttura emergente di epoca ero-diana, resta solo la base di una torre; una delle tre torri costruite, secondo Giuseppe Flavio, a difesa del palazzo e della città.
Le fortezze erodiane
Da Giuseppe Flavio sappiamo che Erode fece ricostruire la città e il porto di Torre di Stratone, dando loro il nuovo nome di Sebastos al porto e di Cesarea alla città in onore di Augusto. Della città erodiana si può ora seguire sul terreno il piano ippodameo con le insulae di abitazione sui lati del cardo che univa la porta nord al teatro nel quartiere meridionale. Inoltre sono stati riportati alla luce una serie di horrea o magazzini coperti a volta a nord del teatro, possibile sottostruttura della piattaforma artificiale sulla quale sorgeva il tempio di Roma e di Augusto di fronte al porto.
Le ricerche subacquee nell'area del porto hanno chiarito l'estensione dei moli e la tecnica utilizzata per costruire il porto Sebastos voluto da Erode sulla costa palestinese, naturalmente inadatta allo scopo. Con una tecnica ardita di ampie piattaforme di calcestruzzo gettate in mare, gli architetti di Erode riuscirono a ottenere un grande bacino esterno rubato al mare, seguito da un bacino intermedio e da un bacino interno, ora interrato, dominato dal tempio di Roma e di Augusto.
A Gerico sono ora visibili una serie di palazzi sulle sponde del wadi el-Kelt e il teatro con l'ippodromo. Sulla proprietà ereditata dagli Asmonei, luogo ideale di soggiorno durante la stagione invernale, Erode aveva fatto costruire almeno tre palazzi circondati da terreni che l'acqua piovana del wadi e della sorgente di 'Ain Kelt nel deserto di Giuda, opportunamente incanalata e raccolta in ampi bacini idrici, rendeva fertili e lussureggianti.
La pianta architettonica che ritroviamo in questi palazzi è quella funzionale, tipica finora dei complessi amministrativi erodiani con gli ambienti disposti intorno a un cortile centrale sul quale si apre anche l'ampia sala del trono o triclinio. Il palazzo dalla pianta più sofisticata è quello centrale che si estendeva sulle due sponde del wadi, unite da un ponte, con giardini, terme, una grande sala lastricata in opus sectile e cortili colonnati con i muri decorati a crustae.
Il complesso di palazzi dove il re venne a morire era difeso dalla vicina fortezza di Kypros che sorgeva sulla cima naturale di el-'Aqabah, nei pressi della strada che saliva a Gerusalemme all'imboccatura del wadi el-Kelt. Nella fortezza, in gran parte distrutta dall'erosione e da casematte moderne dell'esercito israeliano, gli archeologi hanno ritrovato due complessi termali, elementi architettonici finemente scolpiti e resti di intonaci affrescati, tracce del comfort e del lusso degli altri grandi complessi finora scavati.
Lo scavo dell'Herodion nei pressi di Betlem iniziato da padre Virgilio Corbo negli anni 1964-66 e proseguito da E. Netzer dal 1972, ha ridato il palazzo-fortezza voluto dal re e gli edifici monumentali di un centro di toparchia dell'amministrazione del regno. Il palazzo-fortezza, al quale Erode volle unire il suo nome e dove volle essere seppellito, era composto al piano terra da un peristilio a cielo aperto, da un triclinio e dalle terme, protetti da un torrione circolare a est e da una doppia cerchia di mura rinforzate da tre semi4orri circolari, con una scala monumentale di accesso che raggiungeva il palazzo dalla parte di nord-est. Il settore amministrativo si estendeva a nord sulle terrazze ai piedi del cono naturale sul quale sorgeva la fortezza. Finora sono stati riportati alla luce diversi ambienti monumentali in relazione con un grande bacino idrico circondato da un portico colonnato nel quale un acquedotto appositamente costruito versava l'acqua raccolta a monte a tre chilometri di distanza. Tra gli edifici si notano in particolare un complesso termale, resti di un va-sto palazzo di abitazione e un edificio in gran parte conservato in alzato di 15 m X 14 m decorato con nicchie e colonne.
Nel deserto, della catena di fortezze a difesa del regno ereditate dagli Asmonei, finora sono state sufficientemente esplorate Kypros, Masada, Macheronte e solo in parte l'Alexandreion sul Jebel Sartaba.
L'esplorazione archeologica di Masada, condotta da Y. Yadin nel 1963-64 con ingenti mezzi a disposizione, resta un punto di riferimento della ricerca anche se viziato finora dalla mancanza della pubblicazione scientifica dello scavo, grazie alla quale si potrà discernere l'apporto monumentale di epoca erodiana dagli edifici preesistenti di epoca asmonea. Sicuramente di epoca erodiana è il palazzo settentrionale arditamente adattato su tre terrazze dello sperone nord della montagna. Di epoca erodiana è anche il settore meridionale del palazzo occidentale con la sala del tron6 e gli ambienti privati decorati con mosaici policromi, nel quale si può notare la stessa pianta usata nei palazzi di Gerico.
In Transgiordania Giuseppe Flavio ricorda un palazzo e due fortezze sul confine meridionale della Perea contro gli Arabi Nabatei di Petra. Il palazzo di Bet Ramtha, che ebbe il nome cambiato in Livias, non è stato ancora oggetto di indagini, anche se la località è ben identificata in telì er-Rameh nelle steppe di Moab sulla riva orientale del Giordano. La costanza e la metodicità di A. Strobel, da anni impegnato nella ricerca topografica della regione desertica sulla sponda orientale del Mar Morto, sono state premiate recentemente con la possibile scoperta e identificazione del secondo Herodion che Giuseppe Flavio ricorda al confine con gli Arabi. La fortezza sembra da localizzare alla confluenza del wadi Wala-Heidan con il wadi Mujib-Arnon in località Qasr Quseib nei pressi di Deir er-Riyashi.
Le quattro campagne condotte dallo Studium Biblicum Franciscanum negli anni 1978-81 a Qal'at al-Mishnaqa, nei pressi del villaggio arabo di Mekawer, sotto la direzione del padre Virgilio Corbo, hanno ridato la fisionomia della fortezza di Macheronte, a giudizio di Giuseppe Flavio «la più possente fortezza» sul confine con i Nabatei di Petra. Come per le altre fortezze del regno, anche a Macheronte troviamo il palazzo-fortezza o città alta distinto dalle abitazioni della gente di servizio che abitava la città bassa. Il palazzo-fortezza occupava la cima della montagna che misura 110 m da est a ovest per 60 m da nord a sud, con un'area complessiva di oltre 4.000 mq. La città bassa era arroccata sul fianco settentrionale della montagna e copriva un'area di circa 5.000 mq. Sulla cima possiamo distinguere due fasi di occupazione monumentale: il palazzo-fortezza di epoca erodiana che fu costruito su una precedente fortezza di impianto differente risalente all'epoca asmonea ancora da scavare, di cui conosciamo solo alcuni ambienti e parte del muro perimetrale.
Il palazzo-fortezza di epoca erodiana era diviso in due blocchi da un corridoio lastricato che correva da nord a sud. Nel blocco orientale, occupato in gran parte da un cortile, troviamo cinque ambienti sul lato nord, forse in comunicazione con la porta d'ingresso; e sul lato meridionale gli ambienti termali, che in questo caso sono provvisti anche di un laconicum (una specie di sauna), unico nelle terme dei palazzi erodiani. Il blocco occidentale era costituito da un cortile colonnato, un peristilio, costruito su una cisterna scavata nella roccia, affiancato sul lato meridionale dal triclinio per una lunghezza di almeno 25 m per 10 m di larghezza. Tra i calcinacci dei muri rasi al suolo dai soldati romani nel 72 d.C., sono restate tracce evidenti dello splendore degli ambienti con stucchi, frammenti di affreschi e di mosaici.
Un acquedotto alto una quindicina di metri dal suolo convogliava l'acqua delle piogge invernali dall'altopiano nelle numerose cisterne scavate sul fianco settentrionale della montagna, affiancato in basso da un secondo acquedotto che serviva le cisterne scavate a una quota inferiore. Un'accorta canalizzazione raccoglieva l'acqua dei tetti nelle cisterne della fortezza. Mentre l'esplorazione della reggia si può dire conclusa, lo scavo della città bassa con case costruite sulle terrazze, ricavate sulle pendici scoscese della montagna a nord e a est, è agli inizi. Finora si riduce ad alcune case rimesse in luce sotto un metro di cenere e di detriti all'interno del muraglione di contenimento che chiudeva l'abitato su tre lati. L'averla localizzata con sicurezza è certamente un risultato importante per seguire il racconto di Giuseppe Flavio sulla fine drammatica che divise gli occupanti della reggia in alto dagli abitanti della città bassa. I primi si arresero ai Romani senza preavvertire i secondi che furono trucidati.
Se nei monumenti conosciuti prima delle recenti indagini archeologiche, l'architettura erodiana era legata all'idea del gràndioso, con gli scavi degli ultimi decenni siamo riusciti a entrare all'interno delle residenze private di Erode e della ricca aristocrazia di Gerusalemme. A Masada, all'Herodion, a Gerico, a Macheronte, pur nell'arditezza dei progetti specialmente per la scelta del luogo, ci troviamo di fronte ad un'architettura più sobria con una messa in opera di conci più piccoli e non sempre ben squadrati, normalmente camuffati dall'intonaco. Gli ambienti sono ben differenziati nella loro funzionalità pubblica (sala del trono, stanze di ricevimento, bagni pubblici) o privata. Il tutto decorato con pavimenti a mosaico o a marmi intarsiati, con pareti e colonne affrescate a riquadri di vivaci colori per dare l'impressione dei marmi, di un gusto dubbio per noi, ma che per i romani come per gli erodiani del primo secolo era il non plus ultra dell'eleganza in fatto di arredamento.
Nel palazzo di Gerico, dove troviamo congiunte un po' tutte le tecniche della migliore edilizia romana contemporanea come l'opus reticulatum, sectile e quadratum, abbiamo la migliore prova che Erode e i suoi figli avevano al loro servizio architetti e maestranze venuti dall'Italia a comprova dell'influenza che il re godeva nella capitale. Tutto questo però non deve far dimenticare che Erode non è un innovatore. Resta un re di provincia ben ambientato nella sua epoca, erede della cultura tecnica ellenistica influenzata dalle emergenze tecniche costruttive romane. Sia le costruzioni monumentali, come il tempio, sia le tecniche costruttive e decorative adottate nei suoi palazzi, si ritrovano utilizzate nei monumenti coevi del mondo ellenistico-romano e prima di tutto nelle costruzioni di epoca asmonea ancora non bene differenziate criticamente dalle costruzioni erodiane.
La comunità cristiana primitiva secondo l'archeologia
La scoperta dei manoscritti del Mar Morto, dagli archeologi messi in relazione con il complesso comunitario di Qumràn, scavato ai piedi delle grotte nelle quali gli stessi manoscritti erano stati nascosti, e il origini della Chiesa nata in questo mondo giudaico-palestinese politicamente suddito di Roma, internamente diviso in sètte, profondamente deluso nelle sue aspirazioni messianiche di restaurazione di un regno che, nel ricordo di una passata grandezza, traeva la forza e la speranza da un radicalismo esasperato che lo portò alla rovina.
Archeologicamente, il passaggio e la stretta connessione tra il giudaismo farisaico del primo secolo e la comunità cristiana emergente è dato a Gerusalemme e nelle immediate vicinanze dalla scoperta di centinaia di ossuari. Sono cassette per lo più in pietra tenera, ordinariamente decorate con motivi geometrici e floreali, nelle quali venivano riposte in una seconda sepoltura le ossa dei defunti. Pratica funeraria da vedere come un'attestazione di fede nella risurrezione dei corpi che è il pilastro fondante della comunità cristiana unita nella fede in Gesù di Nazaret morto e risuscitato. Nel 1968, in un ossuario di una tomba esplorata sul monte Scopus, furono recuperate le ossa di un uomo crocifisso, con un chiodo di ferro dii 8 cm di lunghezza ancora infisso nei calcagni appaiati, prima evidenza giuntaci dall'antichità di questa macabra pratica di punizione.
In questa ricerca storico-archeologica dei primi secoli della nostra èra, ha una sua precisa localizzazione anche l'indagine riguardante la primitiva comunità cristiana in terra di Palestina condotta sui testi letterari e con gli scavi nei santuari di Terra Santa. Anche se la maggior parte delle scoperte riguarda chiese e cappelle costruite in epoca bizantina, dal IV secolo in poi, incoraggianti dati provengono dagli scavi della chiesa dell'Annunciazione a Nazaret e dalla chiesa di San Pietro a Cafarnao condotti rispettivamente dal padre Bellarmino Bagatti e dai padri Virgilio Corbo e Stanislao Loffreda, archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.
A Nazaret, la riscoperta sotto i mosaici pavimentali della chiesa bizantina di elementi architettonici di una precedente sinagoga giudaica, con graffiti di origine cristiana (giustamente famoso il Xaire Maria, la prima «Ave Maria» scoperta in archeologia!), è parallela storicamente alle testimonianze scritte lasciateci da Giulio Africano e da Egesippo (citati da Eusebio nella Storia Ecclesiastica 111,32,6; 20) sui familiari di Gesù, che, per aver testimoniato davanti all'imperatore Domiziano la loro fede, diventarono a Nazaret, dove vivevano, come a Gerusalemme e in altri centri della regione, i capi della comunità. A Cafarnao, il mosaico della basilica ottagonale bizantina copriva una più modesta domus-ecclesia i cui muri - come scrive la pellegrina Egeria che la visitò prima che fosse distrutta - erano ancora quelli della casa di Pietro in cui Gesù aveva abitato quando predicava nei dintorni (Mc 2). Sono due esempi che danno credito storico alla tradizione della comunità cristiana palestinese da rivalutare, caso per caso, senza esagerazioni pietistiche ma anche senza preclusioni aprioristiche, come una tradizione vivente, testimone possibile del passaggio di Gesù di Nazaret