L'immagine di Dio
nell'Antico Testamento
Cecilia Carniti
«Mostrami la tua gloria», chiede un giorno Mosè al Signore (cfr. Es 33,18). Egli ha già incontrato il Signore, quando nel roveto ardente Dio gli si è manifestato e lo ha incaricato di liberare il suo popolo dall'Egitto (Es 3-4). Il Signore gli è poi stato vicino, con la sua parola e con la sua potenza, durante tutti gli interventi presso il faraone (Es 5-12), e ha guidato lui stesso il suo popolo fuori dall'Egitto (Es 13,11-22) attraverso il Mar Rosso (Es 14), fino al Sinai, dove con lampi e tuoni ha manifestato la sua potenza (Es 19), ha concluso l'alleanza (Es 24,1-11) e ha chiamato Mosè sul monte vicino a sé per quaranta giorni (Es 24,12-18).
Forse proprio questa familiarità con Dio suscita in Mosè il desiderio di una conoscenza più intima, di poterlo vedere direttamente in tutto il suo splendore, senza lo schermo del fuoco, del fumo o della nebbia della nube. Ma il Signore risponde: «Non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,20).
Non è un rifiuto. Il Signore ha già tante volte esaudito le richieste di Mosè. Solo, questa volta, la sua preghiera mira a qualcosa di impossibile, perché non tiene conto del fatto che l'uomo è uomo e Dio è Dio.
Ma Dio nella sua condiscendenza subito aggiunge: «Ecco un luogo vicino a me: ti terrai sulla roccia. Quando passerà la mia gloria, ti metterò nella fenditura della roccia, e ti coprirò con la mia palma fino a quando sarò passato: e ritirerò la mia palma e mi vedrai di dietro; ma il mio volto non si vedrà» (Es 33,21-23).
Se la richiesta di Mosè, giustificata dal desiderio e dall'amore, è troppo ardita, il Signore trova come accontentarlo in tutto quello che è possibile. Se lo splendore del suo volto è troppo radioso perché un uomo possa vederlo senza morirne, questo non significa che allora l'uomo non possa vedere nulla di Dio. Permettendogli di vedere il suo dorso, Dio gli manifesta almeno un riflesso della sua gloria, che però è il massimo che un uomo possa vedere.
Era una concezione diffusa presso i popoli dell'antico Medio Oriente che un uomo non potesse vedere la divinità senza morirne. Era forse un modo molto semplice per sottolineare la distanza reale, insuperabile, tra l'uomo e la divinità. È probabile che questa concezione fosse viva anche in Israele, e questo spiegherebbe la risposta di Dio a Mosè, per fargli capire che la sua richiesta è impossibile. Oggi diremmo forse che l'uomo non può vedere Dio non tanto perché ne morirebbe, ma semplicemente perché la realtà di Dio è così diversa e superiore alla nostra, che i nostri occhi non la possono percepire.
Ma in ogni uomo credente c'è insopprimibile il desiderio di «vedere Dio», di averne cioè una conoscenza diretta, personale, che riempia la vita. E poiché la realtà di Dio direttamente con gli occhi umani non si può vedere, con le parole umane non si può esprimere, Dio ce ne mostra, come a Mosè, un riflesso, che ci permette di conoscere almeno qualcosa di lui, nonostante i nostri limiti.
Quando gli uomini, anche pagani, pensano a Dio o ai loro dèi, e ne parlano, non disponendo né nel pensiero né nelle parole, di mezzi adatti alla grandezza della realtà divina, ricorrono spontaneamente a immagini familiari, che vengono in qualche modo adattate alla divinità. Può trattarsi di fenomeni atmosferici o naturali, come il lampo, il tuono, la bufera, il fuoco..., in cui l'uomo sperimenta una potenza che gli sfugge, e che possono dunque per lui diventare immagini della potenza divina. Oppure può trattarsi di pietre, piante o animali che vengono considerati come simboli o manifestazioni della divinità. E spesso, specie quando si ha la concezione di una divinità personale, si ricorre a immagini prese dal mondo umano, e si pensa dunque a Dio o agli dèi come se fossero persone umane, che agiscono e reagiscono, che hanno sentimenti e desideri come gli uomini, naturalmente più potenti, appartenendo a una realtà superiore.
Le immagini naturali di Dio
Questo modo di pensare e parlare della divinità, spontaneo e naturale per l'uomo, si potrebbe dire che venga in un certo senso approvato e legittimato da Dio, perché spesso nella Bibbia per parlare di lui si ricorre a immagini prese dal mondo creato, che, pur se non adeguate a esprimere la grandezza della realtà di Dio, sono però per noi utilissime, perché ci permettono, come sprazzi di luce, di conoscere secondo le nostre possibilità qualcosa del mistero di Dio. E se è vero che queste immagini non sono sufficienti per esprimere il mistero di Dio in tutta la sua profondità, è però anche vero che non sono tali da falsarlo. La realtà creata è creata da Dio, e l'uomo in particolare è stato creato da Dio «a sua immagine e somiglianza» (cfr. Gn 1,26-27). Dunque niente di più naturale che, non disponendo di altri strumenti più adatti per parlare di Dio, se ne parli e Dio stesso parli di sé agli uomini, utilizzando quei mezzi in cui egli ha impresso la sua impronta (Sap 13,5), il mondo creato e soprattutto l'uomo.
Benché sia chiaro in Israele che il Signore sia un Dio personale, e dunque non sia da identificare con le forze della natura o con gli astri, spesso nella Bibbia si ricorre a immagini prese dal mondo creato per parlare di Dio. Si dice che egli è luce (Sal 27,1; Is 60,19-20; Mic 7,8), sorgente di acqua viva (Ger 2,13; 17,13), roccia (Dt 32,4; Sal 144,1), rifugio (Is 25,4; Sal 62,8), fortezza (Sal 18,3; 91,2), sole e riparo (Sal 84,12), ombra (Sal 121,5; Is 25,4), muro di fuoco per Gerusalemme (Zc 2,9), corona di gloria e diadema per il suo popolo (Is 28,5). E come la rugiada (Os 14,6) e come il fuoco (Is 66,15).
Per capire appieno la portata di queste immagini, dobbiamo riferirci alla cultura di allora. La luce, opposta alle tenebre del caos (Gn 1,3), è segno di vita, di festa, di attività e di ordine. Le tenebre sono il dominio della morte. Nel buio della notte solo i malvagi restano all'opera (Gb 38,15), o le sentinelle che sospirano l'aurora (Sal 130,6). E nelle notti di veglia o di festa, il fuoco e le fiaccole danno sicurezza e gioia.
Tutti sappiamo che l'acqua è indispensabile alla vita. Per chi vive in una terra bruciata dal sole, questa consapevolezza si fa molto più acuta. L'acqua diventa un bene preziosissimo, da raccogliere e conservare con cura, quando piove e i torrenti stagionali sono in piena, in cisterne scavate, con pareti che non la riassorbano. Ma una sorgente, che fornisca con abbondanza e regolarmente acqua «viva», cioè non stagnante, rappresenta una ricchezza e una garanzia di vita, e in genere è la condizione per poter stabilire o meno una città.
L'immagine della roccia ci dà l'idea della stabilità e della sicurezza. Nel salmo 125 viene anche suggerito un paragone tra Dio e le montagne. Gerusalemme, si dice al verso 2, è circondata da montagne. Questa è sempre stata la sua sicurezza e la sua difesa. Era difficile, almeno per la parte più antica della città, attaccarla o cingerla d'assedio, perché un esercito non avrebbe avuto la possibilità di accamparsi se non sul pendio delle montagne intorno, e dunque in una posizione scomoda e per di più esposta ai lanci di frecce e di fuoco dalla città. Il senso di sicurezza e di protezione che suscita la vista di questa cintura di montagne suggerisce al salmista l'idea di un'altra protezione, quella di Dio, stabile e sicura come e più delle montagne: «Il Signore sta intorno al suo popolo, ora e sempre!» (SaI 125,2).
Le immagini usate sono, a volte, contrastanti: sole e ombra, come la rugiada e come il fuoco. Si tratta di mettere in evidenza aspetti diversi, parziali, della realtà di Dio che è insieme potente e sorgente di vita (sole) e luogo di ristoro (ombra), forza irresistibile che stermina il nemico (il fuoco in Is 66,15) e presenza gradevole e delicata per i suoi («sarò come la rugiada per Israele», Os 14,6; e vedi anche 1Re 19,12, dove dopo il vento forte, il terremoto e il fuoco, è la brezza leggera a suggerire la presenza di Dio).
In alcuni casi le immagini usate non sono riferite direttamente a Dio, ma ne indicano la presenza.
Mosè vede una fiamma di fuoco in un roveto che brucia senza consumarsi, e il Signore lo chiama di mezzo al roveto (Es 3,2-4). All'uscita dall'Egitto il Signore marcia alla testa del popolo, di giorno in una colonna di nube e di notte in una colonna di fuoco (Es 13,21-22). Quando gli Egiziani che li inseguono sono ormai quasi addosso agli Israeliti, la colonna di nube si sposta alla retroguardia, per proteggerli (Es 14,20.24-25). Al Sinai, quando il Signore scende nel fuoco per fare l'alleanza col popolo, ci sono tuoni, lampi e una nuvola densa, e tutto il monte fuma come una fornace (Es 19,16.18 e 24,15-17). Ed è sempre la nube che si vede scendere dall'alto quando Mosè va alla tenda del convegno per parlare con Dio (Es 38,8-10), e che guida il cammino del popolo nel deserto dopo la partenza dal Sinai (Es 40,36-38; Nm 9,15-23; 10,34).
In questi testi il fuoco o la nube diventano il segno della presenza di Dio. Dio non è visto direttamente, il fuoco o la nube lo nascondono agli occhi umani e tuttavia ne rendono percepibile la presenza.
È un modo molto semplice e immediato per esprimere l'idea che Dio non si può vedere, ma che la sua presenza è reale, al punto che viene quasi materializzata, quando se ne specificano gli spostamenti (la colonna di nube che passa alla retroguardia o la nube che scende), o quando si afferma che il luogo dove si trova ne risulta così riempito che non c'è più posto per altri (1Re 8,10-11: «Quando i sacerdoti stavano uscendo dal santuario, una nube riempì il tempio di Jhwh e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere le loro funzioni a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il suo tempio»; un testo molto simile si trova anche in Es 40,34-35, riferito al santuario mobile del deserto).
Le immagini riferite a Dio e prese dal mondo animale o vegetale sono meno numerose, ma altrettanto suggestive. Dio viene paragonato ad animali feroci, come il leone o la leonessa, il leopardo, l'orso, per esprimere la sua potenza invincibile contro chi gli si oppone, e in favore dei suoi che protegge, ma anche contro il suo stesso popolo, quando non gli è più fedele (Is 31,4; Os 13,7-8). Oppure viene paragonato all'aquila, che volando ad ali distese sopra i suoi piccoli li protegge, e se li vuole spostare li carica su di sé e li porta via (Dt 32,11).
Come gli aquilotti, pur se piccoli e incapaci di difendersi, non hanno nulla da temere, perché l'aquila adulta, a cui nessuno oserebbe avvicinarsi, sta sopra di loro e li protegge, e sulle sue ali, aggrappati alle sue penne, può portarli ad altezze che da soli non sarebbero capaci di raggiungere, così Israele deve sapere che il suo Dio veglia su di lui, se ne fa carico e lo fa riuscire in quello che da solo non potrebbe immaginare di fare.
In Is 31,5 si dice che il Signore, come gli uccelli, proteggerà Gerusalemme. A questo testo si riferisce forse Gesù quando rimprovera la città santa di non avergli lasciato raccogliere i suoi figli come l'uccello (probabilmente la gallina) che raccoglie i piccoli sotto le ali (Lc 13,34). In diversi passi, poi, senza che esplicitamente si richiami l'immagine degli uccelli, si parla delle ali di Dio, alla cui ombra o al cui riparo gli uomini possono rifugiarsi (Rt 2,12; Sai 36,8; 57,2; 61,5; 91,4) ed essere felici (Sai 63,8).
In Os 14,9 è invece un'immagine vegetale («Io sono come un cipresso verdeggiante, è grazie a me che in te si trova frutto»), a dare questa stessa idea di protezione, di sicurezza e di abbondanza che si può sempre trovare presso Dio.
L'immagine personale di Dio
Essendo chiaro per gli Ebrei che il loro Dio è un Dio personale, è naturale che le immagini prese dal mondo umano siano numerosissime. A Dio si attribuiscono azioni, riflessioni, progetti, sentimenti simili a quelli dell'uomo, ma a partire proprio da queste immagini si sottolinea anche la differenza tra Dio e l'uomo, sia per quanto riguarda la grandezza e la potenza, sia per quanto riguarda la bontà e l'amore di Dio.
Di Dio si dice che guarda, ascolta, parla, risponde, sente gioia, amore, misericordia, ma anche che si adira di fronte al male, minaccia, punisce, oppure di fronte alla preghiera e al pentimento dell'uomo esaudisce e perdona. Essendo molto superiore all'uomo, immagina che abiti nel cielo (Sal 123,1), o addirittura al di sopra del cielo, da dove si china per guardare il cielo e la terra (Salì 13,6). Dio è un re, e dunque siede su di un trono altissimo (Is 6,1), che ha come base la giustizia e il diritto (Sal 97,2), e la terra, in tutta la sua estensione, non è che lo sgabello su cui posa i suoi piedi (Is 66,1). Ha una corte di esseri divini, gli angeli (Sai 82,1; 89,8) e tutte le forze atmosferiche sono al suo servizio: il tuono è la voce che fa sentire agli uomini dal cielo come un ruggito (Sal 29,3-9; Ger 25,30); i lampi sono le sue frecce (Sal 18,15); la pioggia, la neve, la grandine sono mandate da lui come un beneficio per irrigare la terra (Gb 38,26-27), o anche come punizione per distruggerla (Gb 9,17; 38,22-23); i venti sono i suoi messaggeri (Sal 104,4). Dio è poi vestito di luce e di splendore (Sai 104,1-2), ma anche di nubi e di tenebre (Sal 97,2), perché è misterioso, e il suo cocchio è una nube o un cherubino (Is 19,1; Sal 18,11).
Pur essendo così elevato e così potente, si interessa di quanto avviene sulla terra (Sai 14,2), dall'alto della sua dimora vede e scruta tutti i luoghi, perfino gli abissi, e tutti gli uomini, perfino nel cuore (Sai 7,10; 44,22; 33,13-16; Pro 15,3.11). È il padrone di tutto, perché tutto è stato fatto da lui (Sap 11,24-26; Sai 89,12). Ha disteso il cielo come se fosse una tenda (Is 40,22); ha fissato le fondamenta della terra (Sal 104,5), a quel tempo immaginata come una grande piattaforma sopra le acque dell'abisso, sostenuta da pilastri; ha domato l'impeto del mare, assegnandogli il suo posto (Gb 38,8-11). Ha stabilito il ritmo del tempo e delle stagioni, regolato dagli astri (Sal 74,16-17; 104,19-23). Ha provveduto e provvede alla vita di tutti (Sal 104,27-28).
Tra le opere della creazione l'uomo occupa un posto particolare. Questo si fa ben risaltare, in modi diversi, nei due racconti di creazione che aprono il libro della Genesi (1, 1-2,4a e 2,4b-25).
Nel primo racconto, iniziando con la luce e il buio, Dio crea l'universo e mette ordine nel caos primordiale. Quando tutto è pronto - terra, mare e cielo sono già riempiti di piante, animali, pesci e uccelli - a coronamento della sua opera Dio crea l'uomo. Lo crea a sua immagine e somiglianza, in coppia, maschio e femmina, e lo pone a capo di tutto il creato (Gn 1,26-27).
La prospettiva del secondo racconto è diversa. La creazione dell'uomo è all'inizio. Dio lo plasma dalla polvere del suolo, come un artigiano che lavora l'argilla, suscita in lui la vita soffiandogli nelle narici, e poi, come un agricoltore, pianta per lui un giardino che affida alla sua cura. Ancora, preoccupato del suo bene, per dargli compagnia, Dio crea prima gli animali, che però non bastano, e infine la donna.
Nel primo racconto la creazione dell'uomo è introdotta da un'espressione che suggerisce una speciale determinazione da parte di Dio: «Facciamo l'uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza» (Gn 1,26).
Nel secondo, tutto centrato attorno alla creazione dell'uomo, Dio lavora: plasma, soffia, pianta, prende la costola, chiude la ferita, costruisce la donna. Le immagini più belle nella Bibbia per Dio e per la sua attività sono in riferimento all'uomo.
Nel seguito del racconto si dirà che Dio viene a passeggiare nel giardino alla brezza del giorno (Gn 3,8). Sembra che, verso sera, venga a trovare i suoi amici, per fare una chiacchieratina con loro nel giardino. Ma essi sentono i suoi passi e si nascondono, poiché ormai sanno di essere in colpa. Allora il Signore inizia con loro un dialogo, delicatissimo. Prima li cerca, poi li interroga, come se non sapesse niente di quanto è successo. Questo tratto, di avviare il discorso con l'uomo con una domanda, sembra tipico del modo di fare di Dio. Lo si ritrova per Caino (Gn 4,9), nei due episodi di Agar nel deserto (Gn 16,8 e 21,17), nell'apparizione di Mamre (Gn 18,9), con Elia sull'Oreb (1Re 19,9.13). Forse è un modo per aiutare l'uomo a entrare in relazione con lui, e forse qui tende ad aiutare i progenitori a confessare la loro colpa. Quando poi alla fine punisce, continua a usare loro misericordia, preoccupandosi di quello di cui ora hanno bisogno: lui stesso fa le tuniche e li riveste (Gn 3,21).
Tutta la storia successiva continuerà a mettere in risalto questo aspetto di Dio: pieno di amore e di misericordia, desidera entrare in relazione con gli uomini, fare alleanza con loro e colmarli dei suoi benefici. Solo la malvagità dell'uomo lo provoca all'ira. Allora egli diventa un guerriero (Is 42,13) e combatte con potenza invincibile, servendosi anche delle forze della natura (Ger 30,23; 51,1) o di eserciti umani che diventano suoi strumenti di battaglia (Is 10,5; 13,3-5).
Ma il suo scopo non è mai uno sterminio definitivo, come dimostra già la storia del diluvio, con Noè e la sua famiglia che sopravvivono (Gn 6,5-9,17). I suoi interventi, anche se a volte severissimi per la durezza di mente e di cuore degli uomini, sono interventi di punizione e di correzione, perché l'uomo si renda conto di avere sbagliato, di non poter farsi gioco di Dio, e così ritorni umilmente a lui, sempre pronto a perdonare (Is 10,24-25; 57,16-18).
Questa relazione di amore misericordioso da parte di Dio per l'uomo appare nell'Antico Testamento soprattutto nei confronti di Israele, il popolo prescelto per l'alleanza, da cui dunque Dio esige fedeltà assoluta. Le sue trasgressioni vengono con pazienza e amore corrette da Dio, che manda a più riprese i profeti a scuoterlo. Ma quando gli ammonimenti non bastano più, Dio lo abbandona ai nemici, non lo aiuta più, anzi sembra diventare lui stesso un nemico (Is 63,10).
Israele più volte nella sua storia ha sperimentato questi interventi severi di Dio, già nel deserto, appena uscito dall'Egitto, nel periodo dei Giudici e ancora dopo, fino alla grande crisi dell'esilio a Babilonia e della distruzione del tempio di Gerusalemme, dove Dio abitava in mezzo al suo popolo. Sempre, però, al pentimento sincero Dio risponde ristabilendo la relazione di amore.
Per spiegare questo atteggiamento di Dio, si ricorre a immagini prese dalla vita quotidiana e familiare in cui l'uomo fa esperienza dell'amore.
Dio è per Israele come un pastore (Sal 23,1-4; 80,2; Is 40,11; 49,10; Ez 34,11-16), che si prende cura delle sue pecore, le ama, le difende dai pericoli, le porta su di sé se non sono abbastanza forti per camminare da sole, cerca per loro i pascoli migliori, l'acqua da bere, l'ombra. Tutto questo fa Dio per Israele.
Ancora di più: egli è un padre per Israele. Lo ama come un figlio primogenito, che suscita in lui una tenerezza irresistibile (Ger 31,9.20). La punizione, quando è necessaria, èla correzione paterna, di un buon padre che non cessa mai di amare, e anzi perdona oltre misura, più di quanto potrebbe fare un padre naturale, perché egli è «Dio e non un uomo» (Os 11,1-9). L'esperienza familiare dell'amore paterno, e anche materno (Is 49,15; 66,13), introduce l'uomo al mistero dell'amore di Dio che comunque lo supera infinitamente.
Lo stesso avviene per l'altra immagine presa dalla vita familiare, quella di Dio sposo di Israele. Egli ha trovato Israele come una fanciulla abbandonata, priva di tutto, e l'ha presa per sé, ricolmandola di doni e di favori. Ma Israele non èrimasta fedele all'alleanza nuziale e si è trovata molti amanti. Per questo Dio l'ha ripudiata e le ha strappato i doni che le aveva fatto. Il suo amore per lei però non è finito; nonostante tutte le sue infedeltà, egli continua ad amarla con lo stesso amore di prima, più grande di quello di qualunque sposo umano, e la desidera ancora per sé, fedele, come agli inizi del loro amore (Is 54,6-8; Ez 16; Os 2,4-22).
Queste immagini si riferiscono alla relazione di Dio con Israele. Non mancano poi anche nell'Antico Testamento testi che dimostrano un'apertura più ampia, universale, dell'amore di Dio. Tutto il libretto di Giona dimostra la misericordia e l'amore di Dio per Ninive, una città pagana e nemica. Ma egli è l'unico Dio, il creatore di tùtta la terra, e dunque tutti i popoli della terra appartengono a lui.
Se con Israele ha voluto stringere un'alleanza particolare è perché attraverso di lui vuole raggiungere tutti i popoli. Gli stessi nemici di Israele, contro cui Dio a volte combatte per difendere il suo popolo, oppresso ingiustamente o oltre misura (Is 47,6), un giorno lo riconosceranno come il vero Dio, si convertiranno a lui e formeranno con Israele un solo popolo che gli dà gloria (Is 19,18-25; 25,6-7; 45,22; 66,18-21).
Così l'Antico Testamento ci parla di Dio, dandoci un riflesso, per noi luminosissimo, della sua gloria. Così gli uomini vengono preparati poco a poco ad accogliere la pienezza della sua rivelazione in Gesù Cristo, il buon pastore, l'immagine del Padre, lo sposo della Chiesa, sul cui volto risplende per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6).
I nomi di Dio nell'Antico Testamento
Parlare di Dio e parlare con Dio! Reazioni differenti -di paura e imbarazzo da un lato, di confidenza o presunzione in altre esperienze - si incontrano nella storia della religione ebraico-cristiana, come pure in quella di altre religioni (vedi l'islam!). La Bibbia sembra venire in aiuto a chi teme di parlare di e con Dio, suggerendo volti e nomi, orientando su esperienze differenti di incontro con lui. I suoi nomi aiutano a incontrarlo e a parlare a lui, ma indicano pure un «più in là», che dissuade dal concludere il discorso su di lui e invita a fermarsi sulla soglia nel mistero.
'El ricorre per circa 240 volte nell'Antico Testamento: in quasi tutte le teologie, dalle più antiche alle più recenti. Molto di più si incontra la sua forma parallela, 'Elohim: circa 2.600 volte! Sono poi da aggiungere le combinazioni di 'El in forme composte distinte: sia nei nomi di persona o di località, come Ismael (cfr. Gn 16,11), Betel (cfr. Gn 28,16-19); sia negli appellativi divini congiunti a esperienze soprattutto patriarcali, come 'El-'Elyòn (Dio altissimo: cfr. Gn 14,19-22), 'El-Saddaj (Dio onnipotente, o delle montagne: cfr. Gn 17,1), 'El-'Oiam (Dio eterno: cfr. Gn 21,23), 'El-Betel (Dio di Betel: cfr. Gn 35,7) ecc.
Pur con sfumature e accentuazioni differenti, il duplice appellativo fondamentale di 'El e 'Elohim, con cui Israele parla della divinità e si rivolge a essa, manifesta alcune caratteristiche costanti di significato. Così si designa con rispetto il Dio degli altri popoli (cfr. Is 43,12-13); ma soprattutto Israele afferma con fede che Jhwh, il suo 'Elohim, è pure l'unico 'Eiohim per tutti i popoli e il loro Signore (cfr. Sal 58,12 e Giobbe, come del resto i libri sapienziali nel loro dialogo apologetico su Dio).
Nelle professioni di fede, quando al nome proprio e di rivelazione Jhwh viene accostato quello di 'El e, soprattutto, 'Elohim, l'antico appellativo divino si carica di senso nuovo: Jhwh è il nostro (il vostro) Dio, con esclusione di qualunque altra divinità o idolo (nell'introduzione al Decalogo: Es 20,2-3; e così pure nel «credo» fondamentale di Israele, lo Shema', che Gesù stesso professò: cfr. Dt 6,4 e Mc 12,19.32).
Jhwh ricorre circa 6.830 volte nell'Antico Testamento (nella sua sezione ebraica); per lo più esso risulta usato nella forma completa di quattro lettere (tetragramma sacro), anche se si incontra (e sembrerebbe fosse questa la sua formulazione più antica) meno frequentemente la sua forma ridotta: Jah (e Jhw). Quest'ultima compare nei nomi teoforici, che poi risuonavano come professioni di fede: Zaccaria = Zekarja(hu) = Jhwh si è ricordato; Isaia = Jesaja(hu) = Jhwh ha salvato ecc.
Lungo la sua esperienza storica, debitamente interpretata da successive profezie e teologie, Israele comprenderà sempre meglio che il Nome del suo Dio si carica di ulteriori significati a ogni nuova situazione ed esperienza con lui. Ciò avviene quando il Nome viene sostituito - per non essere più pronunciato (se non una volta all'anno, in un momento cultuale solenne) - con 'Adònaj, non tanto nel testo scritto, quanto nella pronuncia, mentre cioè lo si leggeva. Non era solo un'alternativa letteraria, bensì un 'interpretazione: si fissava in qualche modo un significato (e un volto) allo Jhwh della rivelazione sinaitica, quello di «Signore» (Signore mio). E avviene nella traduzione in greco ellenistico (Settanta) dell'Antico Testamento: Jhwh diventa allora Kyrios, cioè ancora «Signore»!
Abbà è, quanto alla formula letteraria, post-esilico e aramaico. Nell'Antico Testamento l'appellativo di padre ('ab) è usato per lo più per le relazioni umane di paternità-filiazione (circa 1.180 volte), mentre per la relazione con Dio solo raramente si dice a modo di paragone («come un padre») che Jhwh è padre (cfr. Sal 103,13; Dt 8,5) o che è misericordioso perché è padre (cfr. Os lì; Is 63,15-64,11).
Per questo nome di Dio si constata nella Bibbia una continuità di rivelazione e di esperienza fra Antico Testamento e Nuovo Testamento. La stessa progressiva rivelazione (ed espressione teologica) circa la «paternità» di Dio - anche se relativamente presente nel suo vocabolo specifico ('ab = padre) - può essere considerata una preistoria dell'Abbà di Gesù: sia nel periodo più strettamente veterotestamentario (si veda, per esempio, il meraviglioso Sal 103), sia nel più recente giudaismo palestinese (si vedano alcune pagine dello stesso Sir 2,6-18; 23,1-6).
Il significato fondamentale dell'appellativo divino Abba è quello di fonte di vita e di relazione filiale che l'uomo ha con Dio.