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    L'economia alternativa

    del perdono

    Gianfranco Ravasi

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    Se volessimo ricorrere alla simbolica numerica potremmo delineare una specie di «matematica» della giustizia, dell’amore e del perdono. È ovvio che l’equazione è l’1 a 1: «occhio per occhio...», così come quella della violenza cieca e distruttiva è il 7 a 77, sulla scia del grido di Lamek: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lameck settantasette» (Gen 4, 24).
    In antitesi a essa si pone l’equazione del perdono così come è formulata da Gesù che – per contrasto – la illustrerà poi con la parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35). Essa presuppone un 7 a 70 x 7: «Pietro domandò: 'Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?'. Gesù gli rispose: «Non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette » (18, 21-22). Già per l’illimitata ampiezza del perdono divino rispetto al confine circoscritto della giustizia si era visto che l’equazione era 7 a 1.000 (Es 34, 7).
    Il perdonare fa parte di quella particolare «economia» dell’amore che non calcola ma dona, e proprio così moltiplica i suoi effetti. Essa è descritta nella mini-parabola che Luca incastona nell’episodio della peccatrice che incontra Gesù nella casa di Simone il fariseo: «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva 500 denari, l’altro 50. Non avendo essi di che restituire, condonò a entrambi il debito. Chi dunque lo amerà di più? E Simone rispose: 'Suppongo colui al quale ha condonato di più!'. E Gesù: 'Hai giudicato bene'» (Lc 7, 41-43).
    Il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce la logica della donazione libera e generosa. Si crea un nuovo regime nei rapporti umani, meno vincolato al calcolo che alla fine rende tese e fredde le relazioni: nella parabola ciò che hai in cambio al condono-perdono è l’amore, che è molto di più dei 500 o 50 denari.
    È questa una logica che applichiamo spontaneamente (ed egoisticamente) a noi stessi, come ammoniva in una delle morali delle sue favole Jean de La Fontaine: «Perdoniamo tutto a noi stessi e nulla agli altri». Ammiccando alla celebre immagine evangelica della trave e della pagliuzza (Mt 7, 3-5), san Francesco di Sales concludeva: «Di solito coloro che perdonano troppo a se stessi sono più rigorosi con gli altri». Si dovrebbe invece essere coerenti e adottare per tutti l’identica «economia» di perdono.
    E proprio perché tutti appartengono alla stessa creaturità adamica e alla relativa finitudine e fragilità, è necessario che si ribadisca la legge della reciprocità. Essa brilla nel Padre nostro: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Un’invocazione, questa, che è accompagnata da un commento di probabile genesi redazionale matteana: «Se infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi, ma se voi non perdonerete gli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6, 12.14-15).
    Questa legge, che è anche alla base della citata parabola del servo spietato, è ribadita a più riprese nell’epistolario paolino: «Siate benevoli gli uni verso gli altro, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4, 32); «Sopportatevi a vicenda, perdonandovi gli uni gli altri [...] Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3, 13). Perdonàti da Dio e dagli altri, perdoniamoci a vicenda: è questo l’impegno morale cristiano che ha, però, ancora una sua radice naturale, profondamente umana.
    Alla spirale della violenza che infetta la società si può e si deve opporre la spirale del perdono, come è attestato – tanto per proporre un esempio concreto contemporaneo – da uno scambio di corrispondenza tra un ex terrorista delle Brigate Rosse italiane e il gesuita padre Adolfo Bachelet, fratello di una delle vittime.
    Ecco un brano della testimonianza epistolare di quel carcerato: «Mi sono accorto che, una volta innescata la spirale del perdono, dell’amore, del bene gratuito, nessuno la ferma più: diventa un contagio, una luce che si comunica da uno sguardo all’altro, una reazione a catena. Questo è il miracolo, di cui oggi sono testimone, in carcere. Io ho questa coscienza nuova: se riuscirò a trasformare la mia vita, questa diventerà un segnale per gli altri e, quando loro faranno altrettanto, questo segnale si propagherà e raggiungerà altri ancora».
    Si tratta, dunque, di elaborare una vera e propria educazione al perdono che, pur non elidendo le esigenze della giustizia, le invera e le supera dando origine a una civiltà diversa che vede in azione non solo le regole dell’«economia » parallelistica del diritto, ma anche quella «eccedente» del perdono. È sorprendente scoprire come questo anelito, che è trascendente ma anche insito in ogni creatura, sia esaltato pure dalla più nobile tradizione musulmana, come appare in questo apologo del sufismo che poniamo a suggello della nostra ridotta e semplificata grammatica teologica del perdono. «Un viandante fu superato da un uomo su un cavallo in corsa: aveva lo sguardo cattivo e le mani insanguinate. Poco dopo spuntò un drappello di cavalieri che gli chiesero se avesse visto un uomo macchiato di sangue a cavallo. Il viandante chiese: 'State inseguendo quel malfattore per consegnarlo alla giustizia?'. 'No – risposero – lo inseguiamo per mostrargli la retta vi del pentimento e del perdono'».

    (Avvenire, 6 marzo 2015)


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