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    Bene / benessere

    Giuseppe Angelini


    1. II rischio è quello che il «benessere» sostituisca semplicemente il «bene», quale suprema misura di ogni valutazione relativa dell'agire umano. Dall'allergia che la coscienza contemporanea mostra per un affronto schietto della questione morale, in molti modi ed in molti luoghi andiamo parlando in queste note. Il modo privilegiato in cui si produce di fatto la tendenziale elusione della questione morale nella civiltà contemporanea è appunto la tendenziale ed incontrollata sostituzione del «benessere» al «bene».
    La sostituzione, e quindi la dissoluzione del bene, si produce a livello di idee e di persuasione profonde, solo successivamente a livello di parole. Ché anzi, a livello di parole, il termine «benessere» sembra essere accompagnato da una connotazione decisamente negativa.
    Si pensi all'uso (magari all'abuso) dell'espressione «civiltà del benessere», per qualificare e condannare la società in cui viviamo.
    Perchè è condannata la «civiltà del benessere»? E soprattutto, che cosa è condannato con questa espressione? È condannata la società dello spreco, dei consumi inutili, dei consumi che insieme consumano la vita, dei bisogni artificiali indotti dalla pubblicità e dalla mimica sociale, dall'atteggiamento inautentico per cui ciascuno - divenuto ormai incapace di giudicare il bene e il male in forza di una persuasione personale e profonda - accetta come «bene», «valore», e comunque come meta da perseguire tutto ciò che come tale è proposto dai messaggi collettivi.
    Ma appare subito chiaro a tutti - a tutti quelli che sono disposti a riflettere spregiudicatamente - che la denuncia della società del «benessere» diventerebbe declamazione vuota e inutilmente moralista qualora non si sapessero sostituire ai bisogni artificiosi e falsi, valori Ideali autentici, qualitativamente diversi da quelli indicati dal «mi piace», «mi soddisfa», «mi va bene».

    2. Cosa vuol dire «valori ideali»? Come distinguere tali valori dai «beni materiali»? In primissima approssimazione potremmo dire: «bene materiale» è quello che viene apprezzato come «bene» in base all'esperienza di «benessere» che esso procura. «Bene materiale» è in tal senso, ad esempio, il pane, e in generale il cibo, quando esso venga apprezzato come bene unicamente in base alla sensazione della sazietà che procura. Ed è appunto riferendosi al pane così inteso che Gesù afferma: «l'uomo non vive di solo pane» (Matteo 4,4). Ovviamente potrebbe dirsi nello stesso senso che l'uomo non vive di solo vestito, di sola casa, di solo sesso, di sola stima, ecc. L'uomo non vive solamente perché soddisfa i suoi «bisogni». L'uomo che intende come «bene» la soddisfazione dei «bisogni» è un «uomo materiale», ed è un uomo condannato alla vanità e alla morte. «Benessere» è appunto ciò che corrisponde al «bisogno» soddisfatto: una sensazione soggettiva di soddisfazione e gratificazione, che peraltro presto svanirà, dando luogo di nuovo al «bisogno» e ad un ciclo ripetitivo senza fine e senza senso. Diceva già Platone che l'uomo il quale vive inseguendo il «benessere», o il piacere, o sinonimamente la soddisfazione del «bisogno», è come un otre bucato: inutilmente continui a metterci acqua, ma non sarà mai pieno.
    Gesù insegna però anche ai suoi discepoli a domandare al Padre dei cieli: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; addirittura Gesù sceglie il pane come segno del suo dono più grande ed essenziale: «Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo». E in determinate circostanze Gesù esprime la sua compassione per la folla smarrita moltiplicando i pani (Marco 6, 33-44). Così come più in generale Gesù passa «beneficando e risanando tutti» (Atti 10, 38): la guarigione sembra essere anch'essa soddisfazione di un bisogno materiale dell'uomo.

    3. Il «bisogno» dell'uomo non è soltanto un bisogno, e cioè un disagio, un «malessere» soggettivo che attende d'essere tolto e per così dire saturato da ciò che accade fuori dall'uomo stesso; e dunque, da ciò che - essendo «esteriore» - è anche soltanto materiale. Il «bisogno» dell'uomo è come la cifra, la modalità provvisoria e simbolica attraverso la quale si annuncia un «desiderio», che nessuna realtà «esteriore» può saturare. Il «desiderio» dell'uomo è rivolto ad una presenza, ad un «altro», che sia simile a me, che risponda alle mie domande e non semplicemente saturi i miei bisogni. Il «desiderio» cerca accoglienza, comprensione, fiducia, approvazione, e alla fine amore. Cerca, in altri termini, chi mediante il suo amore dia senso e valore alla mia vita, la quale per se stessa e in se stessa non saprebbe trovare né senso nè valore. Si potrebbe cercare verifica e illustrazione per questa distinzione e gerarchia - il «desiderio» oltre e prima del «bisogno» - nell'esperienza infantile della nutrizione: attraverso la soddisfazione del «bisogno», che in realtà è manifestazione di affetto, la madre non realizza solo e soprattutto una necessità biologica del bambino, e neppure una necessità psicologica, ma instaura una presenza, l'attestazione di un'accoglienza, dalla quale il bambino deriverà fiducia nella realtà e fiducia in se stesso per tutta la vita.

    4. Le scienze psicologiche contemporanee - soprattutto la psicoanalisi - interpretano peraltro questa connessione tra esperienza somatica, affettiva e coscienziale nel quadro di una preminenza della categoria del «bisogno», o della «pulsione»: e cioè, di una categoria derivata dall'esperienza biologica, di una categoria «cieca», ossia senza senso, senza trasparenza simbolica. «Affetti» e «idee» sarebbero forme sofisticate e secondarie di realizzazione dell'istanza più fondamentale, che è quella della saturazione del «bisogno», e dunque quella del «piacere» o del «benessere». Di qui procede la sistematica riduzione della cosiddetta esperienza morale agli schemi ritenuti più fondamentali della salute, magari di quella mentale: «stare bene» è al vertice d'ogni apprezzamento. Il rapporto interpersonale - e anche il cosiddetto amore - diventa soltanto un mezzo, messo in relazione al fine supremo del «benessere».
    Ovviamente in tale prospettiva rimane senza risposte - senza senso, senza attenzione - il problema della morte. Ma non solo questo: rimangono senza senso, senza valore, anzi risultano disvalori, la sofferenza, la malattia, il disagio della solitudine e della incomprensione, e così via.
    Ma che sia consentito, e anzi imposto, all'uomo di cercare un «bene» che vada oltre il «benessere», un «bene» in rapporto al quale soltanto possono essere valutati come «beni» (penultimi, provvisori, condizionati) anche il cibo, il vestito, la salute, l'amicizia, e così via; che sia inoltre consentito all'uomo di «volere bene» fino al punto di poter perdere per l'altro il proprio «benessere» e la propria stessa vita («in questo mondo», come precisa Gesù); tutto questo esigerebbe più lungo discorso.

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